Processo Perseo: Giampà, nel carcere circolavano le dichiarazioni di alcuni pentiti

Processo Perseo

Processo Perseo

di Claudia Strangis e Stefania Cugnetto

Con un fuoco incrociato di domande e risposte, sotto l’abile regia del presidente del collegio, è iniziato il controesame  dell’ex capo clan Giuseppe Giampà, ora collaboratore di giustizia e testimone in questo filone del processo Perseo che si sta  celebrando davanti alla sezione penale del Tribunale di Lamezia, in composizione collegiale presieduto dal giudice Carlo Fontanazza, e a latere dai giudici Francesco Aragona e Tania Monetti. Un’udienza sotto il profilo giudiziario interessante e  per alcuni tratti anche sorprendente perché le difese degli imputati hanno messo in discussione la credibilità del pentito, collegato in video conferenza da un sito riservato.
Ma c’è di più Giampà  ha svelato che quando era in carcere e prima di pentirsi ha letto alcuni verbali resi dai pentiti  Angelo Torcasio e Saverio Cappello.
A sottoporre per primo a controesame il “Padrino” dell’ex cosca è stato l’avvocato Francesco Pagliuso che ha concentrato il suo interrogatorio sulla figura di Giuseppe Giampà all’interno della cosca, “lei signor Giampà – ha chiesto l’avvocato – era capo clan della cosca perché l’aveva ereditato o perché l’aveva meritato?”. Una domanda alla quale il pentito ha risposto sostenendo che il ruolo gli era stato riconosciuto in quanto  da lui “venivano tutti gli affiliati, loro mi  riconoscevano – ha precisato -come capo. Ho iniziato da quando avevo 15 anni con le estorsioni, poi sono stato sempre a capo del gruppo di fuoco e dal 2008 prendevo decisioni autonome ed avevo ancora più autorità”, così ha risposto il collaboratore che ha poi aggiunto “non dovevano darmi il ruolo i miei familiari, né mia madre né le mie sorelle, né mio padre che era in carcere, ma gli affiliati”.

L’avvocato Pagliuso ha insistito sulla credibilità di capo clan di Giampà, chiedendogli come mai, se lui era l’unico capo della cosca dal 2008, al matrimonio di Giuseppe Chirumbolo, risalente al 2009, suo zio Vincenzo Bonaddio fosse seduto a capotavola. La risposta del pentito è stata “per anzianità non per riconoscimento di ruoli”. Il difensore ha, poi,  continuato a scavare nel rapporto tra zio e nipote, rapporto che sembrerebbe essere stato criticato dallo stesso “professore” che si sarebbe detto molto seccato per gli atteggiamenti del figlio nei confronti di Bonaddio. Errori nelle gestione della “famiglia” e non idoneità a fare il capo perché faceva uso di stupefacenti, queste le voci degli affiliati e degli altri collaboratori di giustizia che più volte avrebbero espresso perplessità sulla figura di Giuseppe Giampà. Ma il pentito in aula ha dichiarato con fermezza “io non ho mai assunto droga, mi schifiavo di queste cose e nessun affiliato si è mai lamentato”.

Sollecitato dalle domande dell’avvocato Pagliuso, Giuseppe Giampà è stato il primo tra i collaboratori ascoltati finora in aula, ad ammettere di aver letto alcune dichiarazioni dei suoi ex affiliati dopo il loro pentimento e prima del suo. “Qualche carta circolava, documenti stampati. Circolavano dichiarazioni di Angelo Torcasio e Saverio Cappello”. Giampà ha ammesso, quindi, di aver avuto modo di accedere ad alcune delle dichiarazioni dei pentiti prima di prendere la decisione di collaborare con la giustizia. “In carcere si parlava delle dichiarazioni di Angelo Torcasio, ci preoccupavano perché Torcasio era implicato negli omicidi”. Ma alla domanda del difensore se lui e Saverio Cappello avessero deciso di collaborare “perché conveniva”, Giampà ha risposto seccamente “non esiste minimamente”. Ma l’avvocato Pagliuso non è stato il solo difensore a mettere sotto torchio il collaboratore di giustizia.

Anche l’avvocato Renzo Andricciola ha sfornato una serie di domande tendenti a screditare la credibilità del pentito,  oltre che finalizzate  a chiarire la posizione di uno degli imputati, Davide Giampà. Andricciola, poi, si è soffermato sul meccanismo delle truffe assicurative, chiedendo, in particolare, se il collaboratore fosse a conoscenza dell’iter di gestione dei sinistri all’interno di una compagnia assicurativa. L’ex capo clan ha risposto confusamente alla domanda, dichiarando “tutta la pratica era gestita in agenzia, all’interno dell’assicurazione. Dalla scelta del perito, all’emissione dell’assegno, concordavo con Mascaro la somma e andavo direttamente alla Zurich a ritirarlo”. Si è concentrato sull’omicidio di Giuseppe Chirumbolo, invece, l’avvocato Salvatore Staiano che ha chiesto al collaboratore se fosse pentito di questa scelta o se avesse messo in dubbio le parole di Saverio Cappello. A tale  domande Giampà ha dichiarato “sono assolutamente certo che Cappello mi abbia detto la verità, allora era la scelta giusta, Chirumbolo voleva attentare alla mia vita quindi mi dovevo difendere”. Staiano, poi,  ha chiesto anche al collaboratore quanti omicidi avesse ordinato negli anni perché “non mi interessa la sua indifferenza alla vita umana ma la sua organizzazione della morte, signor Giampà il suo è un cervello organizzatissimo”. Il controesame dell’avvocato Pino Spinelli si è concentrato sull’estorsione ai danni dell’imprenditore Giuliano Caruso che fu causa dell’arresto di Giuseppe Giampà prima dell’ordinanza Medusa. L’avvocato ha messo in evidenza le contraddizioni del teste che inizialmente non si era dichiarato responsabile di tale estorsione, ma che l’avesse ammesso solo in seguito come per “allinearsi alle dichiarazioni di Angelo Torcasio”. Giuseppe Giampà ha risposto “ci ho pensato bene, l’estorsione l’ha fatta Angelo Torcasio ma perché io gli avevo dato carta bianca sull’estorsioni, Torcasio ha sbagliato solo a fare il mio nome e non a fare l’estorsione in nome della cosca”. L’avvocato Spinelli ha poi chiesto cosa volesse dire fare parte dell’associazione: “vuol dire fare estorsioni- ha spiegato il pentito- controllare il territorio, portare soldi, se porti ambasciate frequenti sei un affiliato”. “Per entrare nel clan – ha poi aggiunto- deve esserci qualcuno che è già dentro che garantisce per te” e alla domanda se sua madre e le sue sorelle facessero parte della cosca, Giampà ha risposto “le donne della famiglia non erano affiliate, le mie sorelle e mia madre non hanno commesso reati, nella nostra cosca non c’erano donne affiliate”. A condurre il controesame sono stati anche l’avvocato Leopoldo Marchese e Luca Scaramuzzino sulla posizione di Andrea Crapellla, contestando le discrepanze delle dichiarazioni del collaboratore sul loro assistito: “devo fare emergere le genericità delle dichiarazioni del collaboratore”, ha detto in aula l’avvocato Marchese, sottolineando come la figura di Andrea Crapella venga citata da Giampà solo come “referente di Giuseppe Chirumbolo prima e di Enzo Giampà dopo”, senza fare riferimento a fatti specifici, come ha fatto invece durante l’esame del pubblico ministero. Hanno concluso, poi, il loro controesame del teste sia l’avvocato Bitonte per la posizione di Antonio De Vito, e l’avvocato Lomonaco per quella di Antonio Donato, considerato il referente della cosca su Catanzaro. Saranno gli altri avvocati della difesa, nella prossima udienza di venerdì, a concludere il controesame di Giuseppe Giampà, per poi passare, eventualmente, all’escussione del prossimo testimone.

Fotoriunione-Giampà