Perseo: la donna del boss nella prossima udienza

Giuseppe Giampà e Franca Meliadò

Giuseppe Giampà e Franca Meliadò

Lamezia Terme- Francesca Teresa Meliadò sarà probabilmente la protagonista della prossima udienza di venerdì del processo “Perseo” che si sta celebrando presso il Tribunale di Lamezia. Meliadò è infatti tra collaboratori di giustizia chiamati a testimoniare dal pubblico ministero Elio Romano. Ma chi è Francesca Teresa Meliadò? E’ prima di tutto la moglie del “padrino”, Giuseppe Giampà, che ha già risposto alle domande della difesa e dell’accusa. Franca Teresa Meliadò, però, non è solo la donna del boss della cosca, è anche una donna che la cosca l’ha vissuta e può fornire altri dettagli interessanti agli inquirenti, oltre a quelli che ha già raccontato durante i lunghi interrogatori a cui è stata sottoposta quando ha deciso di intraprendere la sua collaborazione. All’inizio la donna riferì agli inquirenti di avere conosciuto Giuseppe Giampà, il marito, quando “aveva 16 anni e pur sapendo che era il figlio del cosiddetto “Professore”, in effetti, non avevo piena consapevolezza di che cosa, all’epoca, fosse la cosca Giampà e la ‘ndrangheta in generale”. Con il passare del tempo Meliadò ebbe modo di “vedere Giuseppe che spesso maneggiava pistole oppure si occupava del taglio di sostanze stupefacenti anche di rilevante entità” e ,quindi, cominciò a rendersi conto “del contesto associativo in cui si trovava a vivere, soprattutto dopo il periodo di carcerazione di Giuseppe tra il 2007/2008 in espiazione di una pena definitiva”. Una situazione, spiegò la moglie del “padrino”, “che cominciò a chiarirsi sempre di più e da tre anni a questa parte ho avuto la consapevolezza del ruolo di mio marito all’interno della cosca Giampà”, incontrando “le varie persone citate nell’ordinanza cautelare tra cui Vincenzo Bonaddio, Aldo Notarianni, Saverio Cappello, Maurizio Molinaro, Alessandro Torcasio, Domenico Giampà, Angelo Torcasio, Emiliano Fozze, Alessandro Villella, Vincenzo Giampà detto “Enzo”. La Meliadò ricorda anche “di avere incontrato il padre di Giuseppe in carcere quando era ristretto presso la Casa circondariale di Bologna”. La donna di Giuseppe Giampà descrisse agli inquirenti i vari rapporti familiari, anche con le sorelle del marito e la suocera, ed alcuni particolari riguardanti la consegna di denaro da parte di alcuni affiliati, come proventi delle attività estorsive. Il ruolo della Meliadò, sempre secondo quanto ha raccontato agli inquirenti, era principalmente quello di “ambasciatrice”. Infatti, quando si recava a trovare il marito durante il suo periodo di detenzione, Giuseppe Giampà le consegnava “dei bigliettini arrotolati e chiusi con il nastro adesivo su cui vi erano i nomi dei destinatari come ad esempio Ale V che stava per Alessandro Villella oppure Alex T o Cavallo che stava per Alessandro Torcasio e cosi via”. Quindi il “padrino” per comunicare con i suoi affiliati usava dei nomi in codice che consegnava alla moglie che poi lei provvedeva a consegnare ai destinatari. Il tutto solitamente avveniva a casa della madre della Meliadò dove lei, di solito, di giorno si recava. La donna del capo non si limitava, però, solo a consegnare biglietti ma svolgeva anche il ruolo di portavoce del marito. Ed ai magistrati ha ricordato che “in una occasione poiché tra mio marito Giuseppe e mio zio Vincenzo Bonaddio nell’ultimo periodo prima dell’arresto vi era stata una spaccatura per motivi di natura economica legati alla riscossione delle estorsioni, Giuseppe mi chiese di invitare Alessandro Villella e Alessandro Torcasio a riferire da che parte volevano stare se con mio marito oppure con Vincenzo Bonaddio”. E in questa occasione ha raccontato, inoltre, che “mentre Alessandro Villella mi disse subito che sta dalla parte di Giuseppe, Alessandro Torcasio era invece più titubante ed anche per questo motivo era più propenso a venirmi a trovare a casa di mia madre che piuttosto a casa di Giuseppe dove avrebbe potuto incontrare Vincenzo Bonaddio”. Pur svolgendo il ruolo di messaggera e portavoce del marito la Meliadò ai magistrati ha riferito di “non avere mai consegnato biglietti dall’esterno verso l’interno del carcere”, perché ha spiegato “in quanto i messaggi che mandavano dall’esterno altri affiliati li riferivo direttamente a voce nel corso dei colloqui utilizzando le dovute accortezze per non essere intercettati, parlando anche nell’orecchio oppure facendo rumore per disturbare eventuali intercettazioni”. A magistrati della direzione distrettuale antimafia la moglie del “padrino” ha rivelato che di “solito erano Alessandro Torcasio o Alessandro Villella ad inviare messaggi a Giuseppe anche perché io potevo avere solo rapporti con questi due su disposizione di marito Giuseppe”.
Non solo ambasciatrice e portavoce del marito ma Franca Teresa Meliadò partecipò anche ad alcune truffe assicurative, sempre gestite da Giuseppe Giampà, e in particolare, tra il 2004 e il 2005 fu coinvolta “in un sinistro simulato” ricordando di essere stata condotta “da un medico il quale gli fece una visita veloce rilasciandogli un certificato”. La donna del capo non ricorda “chi fosse il medico e dove si trovasse lo studio o se lo stesso era a conoscenza della nauta simulata del sinistro”, ma ricorda solo “ che era un medico ortopedico”. In quanto donna del “padrino” lei, come le altre donne della cosca, usufruiva di abituali sconti nei più importanti negozi lametini. La Meliadò ha raccontato agli inquirenti i rapporti che intratteneva con alcuni commercianti presso i quali acquistava della merce ricevendo lo sconto del 50%. La moglie del “padrino” indica anche i negozi dove si riforniva con lo sconto che le veniva praticato “per l’intero anno al di là dei saldi di fine stagione, riguardo che veniva praticato sia quando si ricava con il marito che quando andava da sola”. Ed i commercianti sapevano che “era la moglie di Giuseppe Giampà e conoscevano bene chi era il marito” e di conseguenza “gli sconti le venivano praticati per rispetto nel confronti del marito Giuseppe”.
Agli inquirenti Meliadò ha fornito anche i nomi di altre persone che si recavano con il marito nei negozi per acquistare capi di abbigliamento”, tra cui anche le “sorelle di Giuseppe e la madre che si recavano spesso presso gli stessi negozi anche se non avendo alcun rapporto di confidenza con esse non abbiamo mai parlato di questa vicenda degli sconti”. E lo sconto alla Meliadò “le veniva praticato direttamente dalle persone che si trovavano nel negozio oppure alle casse” e precisa di “non avere mai trattato direttamente con i titolari degli esercizi commerciali”. La donna del “padrino” ai magistrati ha dato delucidazioni anche in ordine all’attività commerciale da lei gestita: la “GT Distribuzione” di cui era proprietaria insieme al marito per il 51%. Attività avviata tra il 2008 e il 2009 ed alle cui dipendenze vi era una segretaria, assunta da Giuseppe Giampà , un cugino ed il padre e Francesco Vasile. Quest’ultimo dopo l’arresto di Giampà fu licenziato insieme alla segretaria “perché gli stessi non davano un contributo lavorativo all’interno dell’azienda e quindi anche per tagliare le spese”, la Meliadò e il padre decisero di “assumere la gestione della GT Distribuzione la cui principale fonte di reddito era la vendita della granita fornendo ai commercianti i granitori in comodato d’uso”. Alla segretaria era corrisposto uno stipendio di 800 euro al mese, mentre lo stipendio di Vasile era di 1.400 euro. Sono tante le domande che i magistrati hanno posto all’attenzione della Meliadò e tra queste anche quella che riguarda proprio la figura di Francesco Vasile che era un suo dipendente. La donna “non immaginava che era un killer della cosca Giampà”. Una donna che conosce vari aspetti dell’organizzazione del marito ma afferma di non sapere “quali altre attività commerciali erano gestite dagli appartenenti alla famiglia Giampà oppure di eventuali proprietà immobiliari eventualmente intestate a loro o a loro prestanome”. In ordine “ai guadagni del marito e alla sua disponibilità di denaro contante”, la Meliadò “non sa dove il marito potesse custodire le somme di denaro”, ma era sicura che “ne era in possesso poiché per qualsiasi sua esigenza Giuseppe era disponibile ad accontentarla”. E sa anche per certo che “tali somme di denaro in contanti non venivano custodite a casa mia in quanto l’ho rovistata tutta senza trovare somme di denaro in contante”. Così come non sa se il marito “potesse custodirle a casa di mia suocera perché non ci sono mai andata tranne che nelle feste di famiglia oppure allorquando mio suocero telefona dal carcere e solo per dargli i saluti telefonicamente”. Non resta che chiedersi su quali dei tanti argomenti si concentrerà la pubblica accusa nell’escussione della testimone che, comunque, non è stata la prima donna a decidere di collaborare con la giustizia. Prima di lei, infatti, a pentirsi fu Rosanna Notarianni, moglie di Giuseppe Angotti, altro esponente del clan Giampà.