Lamezia: moglie presunto appartenente famiglia mafiosa lancia appello non cacciatemi di casa

capovilla

Lamezia Terme – Ritorna alla ribalta della cronaca la vicenda di Adele Capovilla (nome di fantasia), che due anni fa rivolse un appello perché la sua abitazione nella quale vive con le sue tre figlie, non le venisse confiscata solo perché sposata con una persona che dagli inquirenti viene indicata come appartenente ad una famiglia mafiosa.

Il cognome del marito è un casato noto alle cronache giudiziarie, ma per la Capovilla il coniuge non ha nulla a che fare con la famiglia, anzi lo indica come una vittima della stessa che lo avrebbe “utilizzato e plagiato poiché esso è affetto da disturbi mentali perchè tempo fa ha subito un grave intervento chirurgico alla testa per un agguato di tipo mafioso”, in seguito al quale “presenta gravi disturbi comportamentali con sbalzi di umore, perdita di memoria e crisi epilettiche ricorrenti”.

Dopo due anni da quell’appello, attraverso il quale chiedeva che gli venisse restituita la casa, ritorna di nuovo ad invocare “clemenza” e invita gli inquirenti a non mandarla via dalla sua abitazione perché, come spiega lei stessa, “è stata realizzata non con fondi illeciti ma con il denaro che mio marito ha ricevuto dallo Stato per ingiusta detenzione. Quello Stato – aggiunge – che pretende che abbandoni la mia abitazione perché è convinto che sia stata, appunto, costruita con denaro frutto di atti illeciti messi in atto da mio marito”.
Capovilla si sente perseguitata, oggetto di stalking giudiziario perché come spiega ancora “ogni venti giorni mi vengono ad intimare di lasciare la casa perché confiscata”. Quell’appello, però, non è stato ascoltato e così domani verrà cacciata da casa nonostante sia stato fissato, per il 17 giugno, un incidente di esecuzione, cioè un procedimento giudiziario nel corso del quale un giudice dovrà stabilire se l’immobile, che è intestato sia a lei che al marito, rientri nei beni da confiscare o meno. I suoi legali già da tempo avevano chiesto al Tribunale delle Misure di Prevenzione di Catanzaro di revocare la confisca del fabbricato e del terreno su cui è stato edificato e quindi dell’immobile.
Per la donna la confisca della sua casa è, quindi, un’ingiustizia perché lei afferma di non aver “mai avuto rapporti con la famiglia di mio marito, dimostrabili con varie denunce da lei fatte contro questa famiglia”. Insomma lei ritiene di aver subito una grave ingiustizia solo per il fatto che l’abitazione è un bene comune e rivolge appunto un appello perché sia ristabilita la verità dei fatti.
La vicenda alla quale fa riferimento la donna riguarda il sequestro di alcuni beni e tra questi la casa, poi confiscata, sulla base di una informativa redatta dalla Questura di Catanzaro che appunto evidenzia che i beni riconducibili al marito fossero il frutto di una attività illecita di tipo mafioso.
La donna ritiene che tale informativa non corrisponda alla realtà perché spiega che l’immobile oggetto di confisca è stato realizzato con del denaro, circa 225 mila euro, elargito dal Ministero dell’ Economia e Finanze al marito come risarcimento “per ingiusta detenzione”, somma che fu data anche ad altri soggetti che erano stati, come il marito, imputati nell’operazione denominata “Primi Passi 2” e nei confronti dei quali, sostiene la donna, non è stato adottato lo stesso prevedimento.
E, con quella cifra, spiega “ abbiamo comprato un piccolo terreno agricolo dal valore di seimila euro e con i restanti abbiamo costruito una casa”. Lo stabile è stato sottoposto a confisca con una sentenza della Corte di Appello di Catanzaro, giustificando la decisione con il fatto che la cifra spesa per la costruzione dell’immobile sarebbe superiore all’importo della liquidazione ottenuta dal marito della signora per l’ingiusta detenzione e che la sua costruzione sarebbe “frutto di altri proventi di natura illecita”. Somma con la quale è stato comprato il terreno, sul quale è stata costruita la casa, e che i giudici di Appello hanno restituito revocando il decreto emesso dal Tribunale di Catanzaro, Sezione misure di prevenzione nel 2010 ed impugnato dalla Capovilla, insieme al marito nel novembre del 2011. La confisca dell’immobile è stata operata perché, appunto, dai giudici è ritenuto frutto di alcune attività illecite ed estorsive che il marito della Capovilla per gli investigatori avrebbe commesso e per cui è stato arrestato e condannato.
La Capovilla nel ripercorrere la storia del marito ricorda che “nel 2009 ha commesso un reato, una tentata estorsione ai danni di un imprenditore, ed insieme a lui sono stati arrestati il fratello, il nipote e un cugino”. Reato per il quale il marito è stato condannato, insieme al cugino, mentre “il mandante zio e nipote sono stati assolti”. Ad avviso della Capovilla il marito ed il cugino “sono stati condannati ingiustamente, poiché i mandanti dovevano essere condannati perché erano loro i beneficiari”. Dal giorno della condanna di suo marito per la Capovilla sarebbero iniziati i problemi con la notifica da parte della questura di Catanzaro della sorveglianza speciale nei confronti del congiunto, “il sequestro della sua autovettura Ford Fiesta, che stava pagando con bollettini Compass, del terreno dove è annessa l‘abitazione e l’ abitazione stessa”. Quindi per la Capovilla il sequestro e la confisca della sua casa sono il frutto di una errata interpretazione di fatti e, per questo, chiede giustizia anche se si domanda “se esiste una vera giustizia”. Per lei non esiste perché “i veri mafiosi non sono toccati e le persone oneste sono perseguitati”. E quindi chiede la riapertura del caso.