“Per la giustizia è difficile provare dei fatti di schiavitù”

Di Isabel Jan-Hess (testo), Magali Girardin (foto), La Cité
Da tv Svizzera.it –
Sulla sua testa pende una taglia, ma malgrado ciò rimane con le spalle ben dritte. A qualche settimana da un importante processo contro i membri della ‘ndrangheta, Marisa Manzini ribadisce la sua volontà di smantellare le reti di tratta di esseri umani in Calabria. La vice procuratrice del tribunale della provincia di Cosenza analizza gli ostacoli che rendono difficile la lotta contro le reti mafiose che hanno trasformato la migrazione in un lucroso business.

 

Recentemente ha arrestato dei membri della criminalità organizzata che obbligavano dei migranti a lavorare in un piccolo comune turistico. A che punto sono le indagini?
Marisa Manzini: Il 5 maggio scorso abbiamo smantellato una rete attiva nel villaggio di montagna di Camigliatello Silano, a una trentina di chilometri da Cosenza. Sono state arrestate 16 persone. Sono accusate di aver sfruttato una trentina di migranti per dei lavori agricoli e di essersi indebitamente appropriati dei fondi versati per il loro mantenimento. Il processo avrà luogo a Cosenza.

 

Cosa rischiano gli accusati?
La legislazione prevede sanzioni piuttosto precise. In caso di delitti minori, senza violenza, come il lavoro poco o non remunerato, gli autori rischiano da uno a sei anni di prigione. Se vi sono violenza o minacce, si passa da cinque a otto anni. E i casi avverati di schiavismo sono puniti con almeno dieci anni di carcere.

Queste pene sono dissuasive o dovrebbero essere più severe?
La legge è ben fatta. È l’applicazione che è discutibile. Le pene sono ancora troppo spesso pronunciate con la condizionale o alleggerite. Tuttavia molti restano comunque dietro le sbarre e una volta usciti possono essere oggetto di sorveglianza particolare.

Si può parlare di schiavismo?
No. La legge non permette spesso di condannare questi datori di lavoro per schiavismo. Perché ciò avvenga, i migranti devono essere obbligati a effettuare un compito e rinchiusi in seguito. Nella maggior parte dei casi, queste persone sono obbligate a lavorare, spesso fino a 12 ore al giorno, sette giorni su sette. Sono malnutrite e a volte neppure remunerate. Tuttavia sono “libere” dei loro movimenti. In questi casi si parla di sfruttamento della forza lavoro o di maltrattamento.

Chi sono gli “intermediari”?
La maggior parte delle volte, i migranti sono arruolati da piccoli capi che svolgono questo ruolo di intermediari. Ce ne possono essere diversi prima di arrivare al vero datore di lavoro-mandante. Una nuova legge, promulgata nel 2016, ci permette ora di risalire le filiere sino ai responsabili e di perseguirli. È un vero passo in avanti. Nel caso di Camigliatello, ad esempio, abbiamo potuto arrestare 16 persone e bloccare completamente il fenomeno in questo settore.

Una vittoria?
M.M.: Certo, ma non bisogna perdere di vista che queste reti possono ricostituirsi molto velocemente altrove.

I migranti sono utilizzati a fini criminali?

Non abbiamo prove. Sappiamo che la ‘ndrangheta oggi recluta persone abituate a procedere in maniera più violenta, in particolare nei paesi dell’est. Negli ultimi anni in Calabria sono stati più volte ritrovati dei resti umani. L’identificazione non è però stata possibile e non siamo quindi ancora riusciti a stabilire un legame diretto. Vi è una grande probabilità che si tratti di immigrati eliminati dalla mafia dopo aver fatto un lavoro sporco. Spero che le inchieste che stiamo conducendo permetteranno presto di provarlo.

La mafia è presente nei centri d’accoglienza?
Per fortuna no. Ci sono molte cooperative che svolgono un lavoro formidabile coi migranti. Sono ospitati in buone condizioni, beneficiano di prestazioni sanitarie, sociali e possono seguire delle formazioni per integrarsi. Ci sono però anche altre situazioni dove effettivamente dei membri di organizzazioni criminali, non per forza la ‘ndrangheta, abusano di queste persone. Ed è qui che interveniamo.

Come? Su denuncia?
O sospetto. Per questo le indagini sono complesse. Non basta una testimonianza per intervenire. Ci vuole anche un’inchiesta che determini se vi è luogo a procedere oppure no. Può essere lungo. Appena abbiamo prove sufficienti interveniamo rapidamente.

I campi illegali sono spesso considerati una riserva di manodopera per la mafia.
Certo, poiché sono spesso occupati da clandestini, rimasti in Italia dopo una decisione negativa sulla loro domanda d’asilo. Queste persone – che chiamiamo ‘immigranti’ – sono ancora più vulnerabili. Appena veniamo a conoscenza di un campo selvaggio, dobbiamo intervenire e smantellarlo. La maggior parte delle volte, però, ricreano il ghetto altrove. È il gran problema della Calabria e del Sud Italia, porta d’ingresso di oltre l’80% dei migranti che arrivano in Europa, e dove non ci sono né lavoro né alloggi a sufficienza da offrire a queste persone.

Quanti di queste migliaia di migranti che sbarcano ogni anno potranno veramente integrarsi qui?
Non lo so, non sono abbastanza immersa nella realtà dell’integrazione sociale. A mio avviso, però, pochi, vista la situazione economica della Calabria.

L’Italia deve chiudere il rubinetto migratorio?
È una domanda politica, alla quale non posso rispondere. Penso solo che l’Italia non potrà continuare a gestire da sola questo flusso migratorio continuo. L’Europa deve pure assumersi le sue responsabilità. Storicamente l’Italia è una terra di emigrazione e di immigrazione. La grande maggioranza della popolazione è pronta ad accogliere questi migranti. Vi è però un momento a partire dal quale c’è il rischio di superare la soglia sopportabile per la regione. Ciò che può portare a dei tumulti, come a Rosarno nel 2010, quando la popolazione si è violentemente rivoltata contro i migranti e la polizia.

Attaccando la mafia più potente d’Italia, lei prende dei grandi rischi. Non ha mai avuto voglia di abbandonare?
Dire che non ho mai paura, significherebbe mentire. Ma sono un’appassionata e sono convinta che quello che faccio è giusto. Sono in Calabria dal 1999 e malgrado tutte le minacce e le difficoltà nel portare avanti queste procedure, non ho mai immaginato di rinunciare. Non è sempre facile essere scortata da poliziotti 24 ore su 24. Né per me, né per la mia famiglia. Ma è una scelta che ho fatto per la giustizia e la dignità umana.

Lei è l’unica donna procuratrice in Calabria. Ciò rappresenta una difficoltà supplementare?
Sì, certo. Tanto più che vengo dal Nord. Sono piemontese. Per impormi in un mondo di uomini, ho dovuto riuscire a ritagliarmi un posto. Percepisco però rispetto per la mia funzione. Nella professione vi è una grande solidarietà.

Le donne sono più pugnaci, più coraggiose?
In vent’anni di magistratura, ho constatato che sono spesso le donne a dare il via a una procedura. Non hanno lo stesso senso dell’omertà. Prendono più rischi, sono più sensibili all’ingiustizia e a volte meno malleabili. Sempre più donne si ribellano e fanno incastrare dei criminali. A volte però lo pagano anche molto caro.

Ossia?
Mi ricordo di una giovane madre che aveva denunciato suo marito per proteggere suo figlio ancora bebè. La sua testimonianza ha permesso di smantellare un’intera rete. Si è però suicidata poco dopo, nell’incomprensione generale. È difficile credere che dopo avere attraversato tutto questo, dopo essere finalmente uscita da questo ambiente mafioso, abbia deciso di porre fine alla sua vita bevendo dell’acido. Ma anche in questo caso è stato impossibile provare che fosse stata assassinata.

In questi ultimi mesi le retate si sono moltiplicate. Ciò significa che un giorno la giustizia potrà venire a capo della ‘ndrangheta?
Lo spero (ride)! Anche se sono consapevole che il cammino sarà lungo. Gli arresti nel maggio scorso di 68 persone affiliate alla mafia, che avevano messo le mani su un centro d’accoglienza dei migranti a Crotone, e alcuni altri fermi e inchieste in corso, permettono in ogni caso di rendere più fragili i rami di questa struttura tentacolare.

Qual è la sua priorità?
Cortocircuitare le reti di tratta degli esseri umani e di sfruttamento dei migranti e degli immigranti. Rendere la libertà e la dignità alle persone prigioniere delle reti mafiose e naturalmente recuperare per la collettività italiana le fortune colossali legate a questi traffici.

Traduzione di Daniele Marian