Mafia: Mori assolto anche in appello

mario-moriPalermo  – La Quinta sezione penale del Tribunale di Palermo, presieduta da Salvatore di Vitale, ha assolto anche in appello Mario Mori e Mauro Obinu, gli alti ufficiali dei carabinieri, accusati di favoreggiamento aggravato, in relazione alla mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, a Mezzojuso nell’ottobre del 1995. I giudici, entrati in camera di consiglio lunedi’ mattina, prima di mezzogiorno, hanno pronunciato la sentenza nell’aula bunker del carcere palermitano di Pagliarelli. L’accusa – rappresentata dal Pg Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio – aveva chiesto una condanna a 4 anni e 6 mesi per il generale Mori e a 3 anni e mezzo per Obinu, dopo la rinuncia a contestare agli imputati l’aggravante mafiosa e quella della “trattativa”. Rimaneva invece l’aggravante di avere commesso il reato nella qualita’ di pubblico ufficiale.
Confermato dunque il verdetto di primo grado del 17 luglio 2013: il generale Mori e il colonnello Obinu sono stati assolti “perche’ il fatto non costituisce reato”. I giudici hanno anche disposto l’invio degli atti alla procura per sei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale tra cui Sergio De Caprio per falsa testimonianza: oltre al capitano ‘Ultimo’, Mauro Olivieri, Francesco Randazzo, Pinuccio Calvi e Giuseppe Mangano, Roberto Longu. Il riferimento e’ all’episodio dell’aprile del 1993, relativo alla mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola, resa impossibile, secondo l’accusa, da una sparatoria provocata dagli uomini del Ros a Terme Vigliatore (Messina); su questa vicenda, a parere dei giudici, questi carabinieri del Ros non avrebbero detto quello che sapevano. Dopo la lettura del dispositivo, Scarpinato e Patronaggio hanno lasciato subito l’aula.
Ecco il testo del dispositivo integrale emesso dalla Quinta sezione penale della Corte d’appello di Palermo?, presieduta da Salvatore Di Vitale che conferma la sentenza di assoluzione per Mario Mori e per Mauro Obinu: “Visto l’articolo 605 c.p.p. “Conferma” la sentenza del tribunale di Palermo resa in data 17 luglio 2013 appellata dal procuratore della Repubblica di Palermo e dal procuratore generale nei confronti degli imputati Mori Mario e Obinu Mauro. Dispone trasmettersi al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo copia dei verbali e delle relative trascrizioni delle deposizioni rese da Oliveri Mauro, Randazzo Francesco, Calvi Pinuccio, Mangano Giuseppe, Longo Roberto e De Caprio Sergio per le sue valutazioni in ordine all’eventuale sussitenza del reato di falsa testimonianza”. Conclude il documento: “visto l’articolo 544 c.p.p. Indica in giorni 90 il termine per il deposito della sentenza”.
Mafia: Mori, assoluzione mi restituisce onore di uomo e ufficiale
“Questa nuova assoluzione e’ un ulteriore passo avanti per dimostrare la mia totale innocenza rispetto alle accuse che mi vengono rivolte. E soprattutto mi restituisce onorobilita’ come uomo e come ufficiale. Pertanto sono veramente soddisfatto dell’esito di questo processo”. Lo ha detto il generale Mario Mori, in un video su Lookout News, dopo l’assoluzione in appello dall’accusa di favoreggiamento alla mafia.

Mafia: legali Mori-Obinu,sancita verita’ storica a lungo distorta
“Questa sentenza non solo conferma il monumentale documento assolutorio di primo grado, ma esclude qualsiasi ulteriore ipotesi accusatoria avanzata in maniera traballante dalla procura generale”. Inizia cosi’ la nota predisposta dagli avvocati Enzo Musco e Basilio Milio, legali di Mario Mori e Mauro Obinu, oggi assolti in appello dalla V sezione penale d’appello di Palermo. “Siamo sereni, e’ la sentenza che attendevamo”: e’ quanto hanno detto i due ufficiali secondo quanto riferisce Musco che li ha raggiunti al telefono. ?”L’ipotesi presuntiva e imprecisata – prosegue la nota – si e’ infranta in un attento lavoro di decostruzione da parte della difesa che ha ribattuto punto su punto la requisitoria della Procura generale.? I due ufficiali, che hanno voluto sin dalle prime battute rinunciare alla prescrizione, hanno corroborato lo sforzo con dichiarazioni spontanee finali dove, con lucida determinazione, hanno tracciato la linea ultima di una verita’ storica per anni distorta e interpretata secondo criteri fuorivanti”. Infine, secondo i legali, “anche oggi la magistratura giudicante ha dimostrato di saper fare la differenza, attraverso percorsi sereni di valutazione ed apprezzamento degli elementi di accusa a disposizione senza teoremi, pregiudizi o presunzioni. La soddisfazione civile e’ grande attesa di leggere le motivazioni”.
Mafia: Mori tra ombre trattativa e assoluzioni, restano i misteri
Otto anni per arrivare alla sentenza d’appello. Ce n’erano voluti cinque per il verdetto di primo grado che il 17 luglio 2013 aveva assolto, “perche’ il fatto non costituisce reato”, il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di Cosa nostra. Nel giugno del 2014 il via al procedimento di secondo grado che si e’ concluso oggi, dopo tre giorni di camera di consiglio, con la conferma dell’assoluzione. Restano i misteri su alcuni snodi. Un percorso processuale complesso iniziato il 18 giugno 2008: il gip ‘impose’ un procedimento che all’inizio la procura non voleva celebrare e che poi e’ diventato quasi fatalmente la premessa di quello in corso sulla trattativa Stato-mafia, nel quale Mori e’ imputato. L’assoluzione di primo grado ne fece vacillare una delle architravi. E in questo processo d’appello che oggi si e’ chiuso, il Pg aveva infine escluso le aggravanti della trattativa e della mafia. Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu erano accusati del mancato blitz di Mezzojuso: per la Dda si sarebbe potuto catturare Bernardo Provenzano gia’ il 31 ottobre 1995, piazzando un micidiale uno-due a Cosa nostra dopo l’arresto un paio d’anni prima di Riina. Mori era gia’ stato processato – e assolto nel 2006 – sul caso del covo di Riina, non perquisito per diciotto giorni dopo la cattura il 15 gennaio 1993.

“ERRORI E OPACITA’ MA NIENTE PATTI COI BOSS”. “Non puo’ che ritenersi priva di ogni riscontro e perfino contraddetta da inoppugnabili dati di fatto l’affermazione di Massimo Ciancimino, secondo cui, grazie all’accordo concluso con esponenti delle istituzioni, il boss Bernardo Provenzano era al sicuro da ogni ricerca e si muoveva liberamente”, scrivevano nella corposa motivazione della sentenza di primo grado i giudici. Il collegio criticava Mori e l’altro imputato per le “scelte operative discutibili adottate nel tempo, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Provenzano”, ma non ci fu alcun accordo tra Stato e mafia, dietro la prosecuzione della latitanza di “Binu”: anche se “non mancano aspetti che sono rimasti opachi”, “la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato che le scelte operative in questione, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volonta’ degli imputati di salvaguardare la latitanza di Provenzano”.

9 GIUGNO 2014, AL VIA L’APPELLO. “Intendiamo dimostrare che Mori anche dopo la sua formale fuoriuscita dai servizi segreti, ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete perseguendo finalita’ occulte, non dettate giuridicamente dallo Stato, in quanto non supportate da procedure legalitarie di accertamenti istituzionali”: cosi’ parlava il procuratore generale Roberto Scarpinato.
Secondo Scarpinato, Mori ha “sistematicamente disatteso il dovere istituzionale di attenersi a determinate norme e i doveri di lealta’ istituzionale nei confronti della magistratura, traendo in inganno i magistrati anche mediante omessa comunicazione di avvenimenti”. Comportamenti “opachi tra gli apparati investigativi del Ros e il generale Mario Mori, intrecciati con gli eventi eversivi che caratterizzarono il periodo delle stragi”.

“EVERSIONE, TRADIMENTI E SILENZI”. Gia’ all’indomani degli attentati del ’93 autorevolissime fonti investigative “avevano evidenziato che tali fatti erano finalizzati per costringere lo Stato a trattare con Cosa nostra”. Un quadro drammatico per la vita della Repubblica rispetto al quale, e’ la tesi della procura generale, Mori non fece nulla nell’ambito di una “convergenza di interessi occulti”. In questi documenti che l’accusa vuole inserire nel processo, infatti, “si fa spesso riferimento – spiega Scarpinato – alla convergenza di interessi criminali nella creazione di una strategia della tensione e a inquietanti strategie criminali tra Cosa nostra, massoneria, servizi segreti deviati ed esponenti di frange eversive”. Mori, “ha sempre mantenuto durante il servizio prestato, il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete perseguendo finalita’ occulte, non supportate da procedure legalitarie di accertamenti istituzionali”, secondo Scarpinato, pur essendo venuto a conoscenza “da fonti qualificate di taluni aspetti di tale complessa strategia della tensione, non solo non ha svolto alcuna attivita’ investigativa ma neppure si e’ attivato per allertare le istituzioni”.

“RELAZIONI PERICOLOSE E DEVIAZIONI, MA NIENTE AGGRAVANTI”. “Le interlocuzioni tra Vito Ciancimino e gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno erano pericolose, sono sfuggite al controllo della magistratura”, affermava il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio il 21 ottobre 2015 iniziando la requisitoria. Secondo l’accusa i carabinieri nel 1992 avviarono contatti e incontri “in gran segreto” con Vito Ciancimino per tentare di mettere un freno alla strategia stragista di Cosa nostra. “Vito Ciancimino disse si’ – ha ricostruito Patronaggio – ma ci volevano coperture istituzionali”. Di questa strategia, pero’, i carabinieri e Mario Mori non informarono l’autorita’ giudiziaria. Mario Mori “ha gravemente mancato ai propri doveri istituzionali di ufficiale di Polizia giudiziaria”, ha sostenuto Patronaggio, “non e’ importante il motivo per cui lo hanno fatto: e’ certo pero’ che sono colpevoli”. Ha elencato i possibili moventi che avrebbero spinto Mori e Obinu a tradire lo Stato.

Una delle ragioni starebbe nella cosiddetta trattativa Stato-mafia”, ma “vi potrebbe essere anche l’appartenenza di Mori a servizi segreti deviati e la sua vicinanza a partiti politici di centrodestra. Quel che e’ certo e’ che il reato e’ stato commesso”. Al termine della sua requisitoria, il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato ha chiesto di 4 anni e 6 mesi per il generale dei carabinieri del Ros Mario Mori, e 3 anni e 6 mesi per il coimputato, il colonnello Mauro Obinu. Molto meno dunque della proposta avanzata in primo grado di 9 anni per l’ex capo dei Servizi segreti, con l’esclusione delle aggravanti di avere agito per commettere i reati connessi alla cosiddetta trattativa Stato-mafia e di avere agito per agevolare Cosa nostra. Rimane invece l’aggravante di avere commesso il reato nella qualita’ di pubblico ufficiale. Secondo i Pm di primo grado, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, Provenzano sarebbe stato lasciato libero in virtu’ di un patto risalente a due anni prima, quando lo stesso boss avrebbe agevolato la cattura di Toto’ Riina, nell’ambito del complesso meccanismo della trattativa, diretto a far si’ che la mafia rinunciasse all’attacco violento con le bombe a uomini dello Stato, gia’ colpiti con le stragi di Capaci e via d’Amelio. La Procura generale sostiene, invece, che non e’ chiaro ne’ conta il motivo per cui Mori e Obinu sarebbero stati “scandalosamente inerti”, tracciando una linea retta fra tre episodi apparentemente slegati fra di loro, ma che vedono come unico elemento comune la presenza del Ros: la mancata perquisizione del covo di Toto’ Riina; due e mesi mezzo dopo, ad aprile del 1993, la mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola, resa impossibile da una sparatoria provocata dagli uomini del Ros a Terme Vigliatore (Messina); e infine il mancato blitz contro Bernardo Provenzano, a Mezzojuso. Tutto potrebbe essere messo in relazione, sostiene Scarpinato, alla “costante deviazione dai doveri istituzionali e dalle procedure di legge e del codice”, posta in essere, nel corso della sua lunga carriera, da Mario Mori. Secondo il Pg, ben prima di prendere il comando del Sisde, di cui fu direttore nello scorso decennio, sarebbe stato legato ai Servizi e avrebbe “sempre assecondato interessi extraistituzionali, deviando dalle regole”, una “costante deviazione dai doveri istituzionali e dalle procedure di legge”.

La DIFESA. CIANCIMINO JR BUTTATO A MARE. “Cosa hanno detto in piu’, rispetto al giudizio di primo grado, i testimoni chiave dell’accusa Massimo Ciancimino e il colonello Michele Riccio? Quale prova o elemento aggiuntivo? Nessuno. Anzi, solo Riccio resta in piedi dopo la scelta di ‘buttare a mare’ il testimone Massimo Ciancimino”: iniziava cosi’ l’arringa di Basilio Milio. E Riccio “ha continuato a sostenere le tesi del primo grado in modo confuso, senza aggiungere niente”.

La testimonianza decisiva, a favore della difesa, secondo i legali, sarebbe quella dell’attuale procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone: “Fu lui a smentire la versione resa dal colonnello Michele Riccio e a togliere valore all’accusa – mossa ai vertici del Ros – di non aver voluto catturare Bernardo Provenzano, nel 1995”, ha detto Enzo Musco. Pignatone, che fu prima sostituto e poi procuratore aggiunto a Palermo, ha detto che mai ne’ Riccio ne’ i vertici del Ros dei carabinieri avevano informato i magistrati della concreta possibilita’ di catturare il superlatitante. “Se fosse stato cosi’ – aveva detto l’attuale capo della Procura di Roma – se cioe’ ci avessero detto di avere la ragionevole certezza della presenza di Provenzano in quel contesto, di certo avremmo provveduto a coordinare le operazioni. Invece ci furono fatti discorsi vaghi e generici sulla speranza di prendere il latitante”.

“DA PG SOLO ACCUSE PRECONFEZIONATE”. “Le valutazioni della Procura generale di Palermo si basano su preconcetti nei confronti miei e dei servizi che ho diretto, che, se non sono deviati, non sono servizi”, ha detto Mario Mori, nel corso delle dichiarazioni spontanee davanti ai giudici della quinta sezione della Corte d’Appello, prima della camera di consiglio. “Mi sono state attribuite tendenze politiche di destra, ma io ho lavorato con Napolitano, Ciampi, Berlusconi, Prodi, Martino, Previti e prima ancora con Andreotti, Craxi, Forlani, Pecchioli… Sarei stato veramente una banderuola…”. “Ci vengono addebitate verita’ preconfezionate e ho ascoltato giudizi sprezzanti verso me e i miei uomini come se si trattasse di una filiera di individui da me plagiati: ma noi facciamo parte di una sparuta minoranza legata a valori ormai obsoleti e siamo lieti di farne parte. Non sono il lucido criminale, secondo quanto ritiene il Pg Scarpinato che ha voluto solo riproporre le tesi degli anni 90 sui ‘Sistemi criminali’, teorie indimostrabili e come tali improponibili, gia’ archiviate su richiesta della stessa procura”.
Mafia: Mori assolto, Di Matteo “c’erano le prove per la condanna”
“Personalmente rifarei tutto quello che ho fatto. Rispetto la sentenza, ma rimango convinto che ci fossero tutti gli elementi di prova per chiedere e ottenere le condanne degli imputati”. Lo dice il pm Nino Di Matteo, il magistrato che aveva coordinato l’indagine e rappresentato l’accusa in primo grado, nel processo contro Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento per avere impedito la cattura di Bernardo Provenzano, possibile, secondo l’accusa, gia’ nel ’95. Commentando la decisione della Corte d’appello di Palermo, che oggi ha confermato l’assoluzione decisa dal Tribunale, Di Matteo ricorda che anche il primo collegio che si era occupato della vicenda “non aveva assolto per insussistenza del fatto, ma aveva riconosciuto come esistenti sia alcuni episodi che le anomalie da noi contestati. Tuttavia – conclude Di Matteo – il tribunale non aveva ritenuto sussistente il dolo e per questo aveva scagionato gli imputati. Ora prendo atto che in appello la sentenza e’ stata confermata”. Gli addebiti mossi contro Mori e Obinu non si limitavano al mancato intervento del Ros a Mezzojuso (Palermo), dove il 31 ottobre 1995 si sarebbe trovato Provenzano, per un summit di mafia, ma anche il mancato approfondimento delle piste investigative aperte dalle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo e dalle osservazioni effettuate dai militari, proprio in occasione della riunione tra boss. Quell’incontro, tenuto in un casolare del paese a una cinquantina di chilometri dal capoluogo dell’Isola, fu solo monitorato dal Ros, i cui operatori si limitarono a scattare foto e a rilevare modelli e targhe delle auto dei partecipanti. Ma nemmeno questi spunti furono poi approfonditi.