Terrorismo: criminologi, alto rischio proselitismo nelle carceri

Siena – “Nelle carceri del nostro Paese ci sono 11 mila detenuti di religione islamica: intervenire sul fenomeno del terrorismo islamico e’ importante perche il rischio che ci sia proselitismo da parte di quelli radicalizzati che sono in carcere per questo reato e’ molto elevato”. E’ quanto sostiene il professor Pietrantonio Ricci direttore di Medicina legale dell’universita’ di Catanzaro che questa mattina al 31esimo congresso nazionale della Societa’ italiana di criminologia in corso a Siena ha presentato i risultati di una indagine sulla islamizzazione terroristica nelle carceri italiane, svolto su un campione di 54 islamici detenuti per questo reato su un totale di 134. “La maggior parte – precisa Ricci – di questo campione si trova in Calabria nel carcere di massima sicurezza di Rossano, ha un’eta’ tra i trenta e i quaranta anni, possiede un bassissimo grado culturale, non ha mai fatto professioni intellettuali e ha una condizione economica molto precaria. Gli strumenti che queste persone adottano prevalentemente dal punto di vista organizzativo sono su internet. Alcuni sono agganciati a reti anche a livello europeo molto importanti”.

Secondo Ricci l’aspetto interessante che emerge dalla ricerca e’ quello di vedere come “la carcerazione determini meccanismi anche di diffusione del pensiero del terrorismo islamico anche per gli islamici che non sono radicalizzati. In particolare il proselitismo nasce quando chi in carcere per questi reati, sottoposto a misure speciali, ha atteggiamenti di sfida, aggredisce le guardie carcerarie verbalmente e fisicamente, applaude o inneggia in occasione di attentati. Atteggiamenti – sottolinea Ricci – che servono a determinare a convincere della bonta’ delle loro posizioni anche gli altri”. La maggior parte dei detenuti islamici per terrorismo sono magrebini, in particolare tunisini. E questo e’ un aspetto che ha interessato non poco gli autori della ricerca coordinati da Ricci. “E’ una cosa che ci ha colpito – aggiunge Ricci – perche’ siamo abituati a considerare la Tunisia una repubblica presidenziale che almeno in apparenza nella sua struttura sembra esser e piu’ vicina al modello europeo”. La soluzione del problema, secondo Ricci e’ “fare uno sforzo di formazione delle guardie penitenziarie, un corpo gia’ in sofferenza per le difficolta’ che ha. C’e’ poi necessita’ di lavorare sulla prevenzione come ad esempio accade in Danimarca, dove ci sono progetti di ricerca e di formazione con tutor, di solito islamici integrati, che intervengano su quelli con il pensiero radicale prima che vadano in carcere”.