Stato-mafia: verso la sentenza, domani Corte in camera consiglio

Palermo – Un processo imponente e di grande suggestione: iniziato il 27 maggio 2013, oltre 200 le udienze celebrate, centinaia i testi ascoltati. I giudici domani entreranno in camera di consiglio per la prima sentenza del processo Stato-mafia. Il presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto e i giudici a latere si ritireranno dopo le eventuali repliche dei pm, le controrepliche delle difese e le dichiarazioni spontanee di Nicola Mancino. Imputati i boss mafiosi Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cina (Toto’ Riina e’ morto a novembre), gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno; Massimo Ciancimino, l’ex senatore di FI Marcello Dell’Utri e l’ex ministro Mancino. Quest’ultimo deve rispondere del reato di falsa testimonianza, Ciancimino di concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Tutti gli altri sono accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Il 26 gennaio scorso, dopo otto udienze di requisitoria, i pubblici ministeri Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e i sostituti della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, avevano formulato le richieste: 15 anni di reclusione per il generale Mario Mori, 12 anni per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per Dell’Utri. Proposti 6 anni di carcere per Mancino. La pena piu’ alta – 16 anni – e’ stata chiesta per il boss Bagarella; 12 anni per Cina’. Non doversi procedere per Giovanni Brusca; condanna a 5 anni per Ciancimino per l’accusa di calunnia e il non doversi procedere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, perche’ prescritto. Boss, politici e carabinieri accusati di avere intavolato un dialogo scellerato tra la mafia e le istituzioni. Una trattativa finalizzata a far cessare gli attentati e le stragi, avviati nel 1992 e proseguiti nel ’93, per indurre lo Stato a piegarsi alle richieste dei padrini di Cosa nostra.

“Questo processo ha avuto peculiarita’ rilevanti che lo hanno segnato fin dall’inizio. La storia ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra e alcuni esponenti istituzionali dello Stato italiano. Una storia che, al di la’ della retorica formale secondo cui le istituzioni combattono con fermezza Cosa nostra, ha fatto emergere un’altra verita’: una parte importante e trasversale delle istituzioni, spinta da ambizione di potere contrabbandata da ragion di stato, ha cercato e ottenuto il dialogo e poi il parziale compromesso con l’organizzazione mafiosa”. Con Mario Mori “protagonista assoluto”. Cosi’ era iniziata il 14 dicembre 2017 la requisitoria nel processo Stato-mafia, oltre quattro anni dopo l’avvio del dibattimento, il 27 maggio 2013, con le sue 210 udienze. Questa “mediazione occulta” ha prodotto “dei risultati devastanti, la realizzazione dei desideri piu’ antichi di Cosa nostra che cercava proprio questo: non la repressione, ma la mediazione”. “La trattativa era attesa, voluta e desiderata da Cosa nostra. E in quel periodo c’era un comprimario occulto, una intelligenza esterna – e’ la tesi sostenuta dall’accusa – che premeva per la linea della distensione. Che diede dei segnali in tal senso, mentre Cosa nostra continuava a cercare il dialogo a suon di bombe, con i morti per terra a Milano e Firenze, e sfregiando monumenti”. “Se si fosse attuata la linea della fermezza e della durezza non ci sarebbe stato spazio per gli stragisti, i consiglieri del dialogo sarebbero stati individuati e assicurati alla giustizia e la strategia della paura debellata. Invece ci furono molteplici segnali volti a favorire la trattativa: il decreto di Conso, la revoca e gli annullamenti del 41 bis disposti da Capriotti (direttore del Dap). Ci furono anche prima partendo dalla mancata perquisizione del covo di Riina”. “Cedendo al ricatto, lo Stato si e’ messo nelle mani della mafia”. Con esponenti delle istituzioni “che hanno ceduto, per paura o incompetenza, illudendosi che la concessione di una attenuazione del regime carcerario del 41 bis potesse far cessare le bombe e il piano criminale di devastazione di vite e obiettivi. Cosa che non avvenne”.