Mafia: 26 anni dopo le stragi, misteri e nuove inchieste

Palermo  – Un tempo breve e tragico che ha prodotto un’onda lunghissima non ancora spentasi: 57 giorni, quelli che separano le stragi di Capaci e via D’Amelio nel 1992. Un attentato contro Giovanni Falcone era da tempo temuto, quello contro Borsellino apparve dolorosamente annunciato, ma entrambi si consumarono in un contesto di incapacita’ e complicita’. La recente sentenza del processo Stato-mafia, dello scorso 20 aprile, apre scenari inediti. La trattativa, dice quel verdetto, c’e’ stata: pezzi di istituzioni e i vertici di Cosa nostra avrebbero negoziato mutue concessioni, determinato eventi e accelerato la decisione sull’eccidio del 19 luglio.
“COLPE DI STATO” Il 23 maggio di 26 anni fa, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo deflagrarono mentre transitavano le Croma. Nella potente deflagrazione, la prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma del corteo, guidata dallo stesso Falcone, si schianto’ contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divoro’ un centinaio di metri di autostrada. Poco piu’ di un mese dopo, il 25 giugno, nel corso di una manifestazione promossa da Micromega, Paolo Borsellino denuncio’ la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni, che hanno agito per isolarlo e ostacolarlo: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone comincio’ a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di quale e’ stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha piu’ colpe di ogni altro, comincio’ proprio a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferi’ il consigliere Antonino Meli”.

IL DRAMMATICO CONTO ALLA ROVESCIA A un certo punto, racconto’ Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cerco’ di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia. Era la superprocura. L’organizzazione mafiosa ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio proprio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia”. I 57 giorni continuarono a scorrere inesorabili. Fino a una domenica d’estate: il 19 luglio 1992. Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la Procura di Marsala, pranzo’ a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si reco’ con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. La deflagrazione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della citta’. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cusina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.
TRATTATIVE E NUOVI SCENARI Dopo 26 anni, tra i misteri d’Italia non definitivamente risolti ci sono ancora quelle stragi. La recente sentenza di prima grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti sta dando linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Dal marzo 2017 Matteo Messina Denaro e’ a giudizio a Caltanissetta per gli eccidi del ’92. E’ accusato di esserne uno dei mandanti. Durante l’udienza preliminare, il pm Gabriele Paci ha sostenuto che Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del ’91 nella sua citta’, Castelvetrano, in cui Toto’ Riina decise di dare il via alla strategia stragista. Il capomafia di Castelvetrano, inoltre, avrebbe inviato a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Giovanni Falcone nei primi mesi del ’92, ma la missione poi falli’. Il ruolo di mandante emerge dalle dichiarazioni di piu’ collaboratori di giustizia, da Vincenzo Sinacori a Francesco Geraci, che negli anni hanno raccontato che il latitante trapanese reggeva Cosa nostra nella sua provincia al posto del padre, il capomafia Ciccio Messina Denaro.

Dai racconti dei pentiti emerge che avrebbe anche progettato l’attentato al giudice Borsellino quando era procuratore a Marsala. Il superlatitante avrebbe dunque ricoperto un ruolo centrale. I magistrati nisseni sono partiti dalla rilettura delle sentenze gia’ emesse e dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, secondo i quali Messina Denaro era l’enfant prodige di Toto’ Riina. Era stato il padre di Matteo ad affidargli il figlio quando ancora era in tenera eta’ e Brusca, fedelissimo del capo dei capi, ha spiegato ai magistrati che fu cresciuto sulle ginocchia del boss. Il latitante trapanese gia’ nel 1989 era il reggente della provincia. Era lui a prendere tutte le decisioni piu’ importanti. La provincia di Trapani era la terra dove Riina e Bagarella trascorrevano la latitanza.
CAPACI TERZO ATTO? Il 27 luglio 2016 si era chiuso il secondo processo su Capaci; il 20 aprile 2017 il quarto su via D’Amelio. Ma come hanno spiegato i magistrati restano ancora troppi buchi neri. Cosi’ si e’ parlato di nuove indagini e di nuovi processi. Il ‘Capaci bis’ si era chiuso con con quattro ergastoli e un’assoluzione: carcere a vita per Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello, accusati di aver ricoperto un ruolo importante sia nella fase organizzativa sia nel reperimento dell’esplosivo utilizzato nella strage in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e la scorta. Assolto Vittorio Tutino, che resta comunque in carcere. La Pm Lia Sava, procuratore generale di Caltanissetta fresca di nomina, aveva definito inevitabile un Capaci Ter, alla luce del ruolo del boss Matteo Messina Denaro – gia’ condannato all’ergastolo per le stragi del Continente del ’93 – e di altri tre indagati chiamati in causa dal collaboratore Cosimo D’Amato, il pescatore di Porticello che ha rivelato come l’esplosivo estratto dalle bombe ripescate in mare sia finito alla cosca di Brancaccio per essere utilizzato a Capaci. “Non risparmieremo energie per cercare ulteriori verita’”, ha assicurato il procuratore Amedeo Bertone. La stagione stragista, e’ stato detto, “nasce dalla necessita’ di Cosa nostra di fare la guerra per fare la pace. Fu in questo contesto che la mafia diede il via agli attentati in Sicilia e nel Continente”. Si continua a esplorare l’ipotesi di una ‘mano’ esterna a Cosa nostra, esclusa nel secondo processo sull’eccidio, al momento, disse una volta Sergio Lari, “solo un’ipotesi nata dall’impulso proveniente dalla Procura nazionale”. Dove, peraltro, oggi si trova Nino Di Matteo, che ha condotto il processo sulla trattativa.

VIA D’AMELIO, “COLOSSALE DEPISTAGGIO” E NUOVE PISTE La sentenza del quarto processo sulla strage Borsellino, ha sancito un punto fermo dopo depistaggi, falsi pentiti, ombre di mandanti esterni: iniziato il 22 marzo 2013, la Corte d’Assise di Caltanissetta, ha inflitto l’ergastolo a Salvuccio Madonia e Vittorio Tutino, entrambi accusati di strage. Dieci anni ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, chiamati a rispondere di calunnia per le dichiarazioni mendaci rese all’inizio delle indagini. “Non doversi procedere” per l’altro falso pentito, Vincenzo Scarantino, per il quale e’ stata appliata la prescrizione. Ma il capitolo resta aperto: la concessione dell’attenuante e’ la conferma della tesi secondo cui e’ stato guidato da qualcuno nel suo falso pentimento. Il procuratore Amedeo Bertone aveva avvertito che “ci sono ancora buchi neri” e che “ci sono le prospettive per una ulteriore attivita’”. A marzo scorso la procura di Caltanissetta ha concluso le indagini sui tre poliziotti accusati del depistaggio sulla strage di via d’Amelio. Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo avrebbero, secondo le contestazioni, indotto il falso pentito Scarantino ad accusare gli uomini per l’eccidio del 19 luglio. L’indagine era stata in un primo momento archiviata e successivamente riaperta, dopo che un processo di revisione era stato avviato a Caltanissetta in parallelo al Borsellino quater, in cui era stato confermato il depistaggio. Molti dei fatti contestati sarebbero avvenuti a Roma e a Pianosa, dove c’e’ il supercarcere in cui Scarantino, a suon di botte, sarebbe stato convinto ad accusare gli uomini della cosca della Guadagna di Palermo. Le indagini continuano.