Processo Perseo: Bonafè “mio marito Giuseppe Notarianni ha sempre lavorato”

perseo-1024-09-10-di Claudia Strangis
Lamezia Terme – Ha difeso e sostenuto la posizione sua e del marito, Carmen Bonafè, imputata nel processo Perseo e titolare della Edil Notar, la ditta di costruzioni edili che, secondo l’accusa, sarebbe stata solo di copertura per il reimpiego dei proventi illeciti che la famiglia Notarianni otteneva con l’usura. Davanti al collegio presieduto dal giudice Carlo Fontanazza e interrogata dal suo difensore, l’avvocato Aldo Ferraro, la Bonafè ha dato la sua versione dei fatti, negando assolutamente che il denaro che circolava sul suo conto e su quello del marito fosse dovuto all’attività usuraia, quanto piuttosto ad anni di “sacrifici lavorativi”. Giuseppe Notarianni, infatti, è stato dipinto dalla moglie, nell’aula Garofalo dove si sta celebrando la fase perseo-1024-09-10-01dibattimentale del processo, come un grande lavoratore che, dopo aver scontato una pena di cinque anni, ha deciso di aprire una ditta di costruzioni nel 2001, proprio a nome della moglie.
Nessuna attività usuraria, secondo la Bonafè, ma solo prestiti tra fratelli “quando ne avevano bisogno” e un giro di assegni dovuti a pagamenti relativi alla ditta “se fossero stati proventi di usura non li avrei mai fatti versare sul mio conto”, ha commentato la Bonafè. La moglie di Giuseppe Notarianni ha risposto alle domande del suo avvocato che ha cercato di dare una motivazione a tutte le contestazioni mosse dalla pubblica accusa e risultanti anche dalle indagini portate avanti dalle forze dell’ordine. Indagini che, secondo la Bonafè, non sarebbero state eseguite nel migliore dei modi, poiché, sempre secondo l’imputata, la Guardia di Finanza avrebbe conteggiato molti più soldi di quanti in realtà loro disponessero. I soldi a cui ha fatto riferimento la Bonafè sono 300 mila euro elargiti al marito dal Ministero per un periodo di ingiusta detenzione. Una somma ingente che sarebbe stata versata sul conto del Notarianni intorno al settembre 2005 e che, secondo quanto ha affermato oggi in aula l’imputata, gli agenti che si occuparono delle indagini tennero conto più di una volta. Scendendo nei particolari, la Bonafè ha ricostruito i giri di denaro di quegli anni, in particolare quelle dei suoi conti, del marito e della ditta edile di cui era titolare. La Bonafè ha spiegato anche dei rapporti con Enrico Montesanti, ora deceduto e con il quale suo marito intraprese un rapporto di collaborazione lavorativa per la costruzione di una serie di villette in un terreno di proprietà del Montesanti. In una udienza dei mesi scorsi questa vicenda fu già oggetto di discussione in aula quando furono chiamati a testimoniare dla pubblico ministero Elio Romano i compratori delle villette in questione e la vedova Montesanti, che spiegarono il meccanismo di costruzione e vendita messo in atto da Notarianni e l’ingegnere ora deceduto. L’avvocato Ferraro ha cercato anche di far luce in merito al debito che i Notarianni, in qualità di titolari della Edil Notar, avevano contratto con la Edil Chirico che gli riforniva i materiali per la costruzione e soprattutto sul rapporto con Giovanni Chirico, a luglio già testimone in aula. La Bonafè ha chiarito che non c’era stata nessuna minaccia nei confronti di Chirico e che, anzi, i rapporti tra loro erano molto buoni, tanto che “la questione con lui si poteva dire definita”. Un debito che, secondo quanto raccontato dall’imputata, avrebbero cercato di estinguere con la firma di alcune cambiali da una terza persona, Nicola Fabio, deceduto nel 2005. Dal racconto della Bonafè, prima e della moglie di Fabio dopo, questa circostanza parrebbe essere stata confermata. La professoressa Caterina Destisto, infatti, ha deposto oggi in aula dichiarando che, prima della morte del marito da cui era separata da una decina di anni, lui le parlò di questo debito di 25 mila euro nei confronti della Edil Notar che gli aveva realizzato alcuni lavori in due capannoni nella zona industriale della Ex Sir. La professoressa, già ascoltata dalla Guardia di Finanza in merito a questa vicenda, ha confermato quanto dichiarato allora: aveva riconosciuto le cambiali firmate dal marito per i 25mila euro di debito e che erano intestate alla Edil Chirico poiché a loro volta i Notarianni avevano un debito con la ditta, un debito, oltretutto ancora non saldato. Una circostanza che la testimone ha confermato con fermezza, sostenendo che, in punto di morte, non ci sarebbe stato motivo di dire una bugia del genere. Dal canto suo, il titolare della Edil Chirico, Giovanni, ha confermato un rapporto di conoscenza con i coniugi Notarianni e anche di aver subito minacce “dai Torcasio”, tentennando in un primo momento, aggiungendo, incalzato dalle sollecitazioni a dire la verità del Pm e del presidente del collegio, “anche dai Giampà”, quegli stessi Giampà che, nelle loro file, avevano anche i Notarianni. Il non saldo del debito, allora, potrebbe essere ricondotto anche a questo, nonostante il teste oggi in aula abbia avuto diversi tentennamenti nell’affermarlo. Chirico, infatti, ha dichiarato di aver provato più volte a recuperare i soldi che gli spettavano ma che, dopo una serie di risposte negative da parte della Bonafè e del marito Giuseppe Notarianni, aveva deciso di smettere. “Per paura?” ha chiesto il pubblico Ministero Elio Romano, e nonostante qualche reticenza iniziale, Chirico ha affermato che sapeva chi fossero e che fossero loro parenti e aveva timore di qualche ripercussione.
Per quanto riguarda, invece, la posizione di Andrea Crapella, i suoi difensori, l’avvocato Leopoldo Marchese, insieme all’avvocato Luca Scaramuzzino, hanno chiamato a testimoniare il fratello Pasquale che ha raccontato come l’imputato abbia sempre lavorato da quando aveva compiuto diciotto anni. Nessuna attività illecita sembrerebbe emergere dai racconti del fratello Pasquale, che ha raccontato di come Andrea Crapella avrebbe, nel febbraio 2012, aperto una sua ditta di giardinaggio: “mio fratello ha sempre lavorato – ha affermato Pasquale Crapella – dal 2008 fino al momento dell’arresto è sempre stato un lavoratore assunto”. Il testimone ha dipinto Andrea Crapella come un ragazzo che non aveva esclusivamente cattive frequentazioni, conosceva da quando era piccolo alcuni degli appartenenti ai Giampà ma questo era dovuto al fatto che avesse sempre lavoricchiato all’interno del campo sportivo di via Marconi, dove il padre era il magazziniere tutto fare. Il fratello maggiore ha raccontato anche di un periodo di depressione dovuto all’arresto del 2009 nell’operazione “Bad Boys”, quando fu accusato di spaccio di stupefacenti e successivamente assolto. E per quanto riguarda, poi, la questione delle tute della Vigor chieste dai Notarianni per gli affiliati in carcere, Pasquale Crapella ha spiegato che si trattava di regali che venivano chiesti da tutti e regalare le maglie dei giocatori della Vigor a fine stagione era una prassi consolidata. Dalle parole del fratello la figura di Andrea Crapella ne esce fuori come un ragazzo lavoratore e assolutamente estraneo alle vicende della cosca, nonostante la pubblica accusa non abbia lo stesso parere in merito. Chiusa questa udienza, le dichiarazioni dei testimoni della difesa continueranno anche nella prossima udienza di mercoledì 14.