Lamezia Terme – Cerbero nella mitologia greca era uno dei mostri che stava di guardia all’ingresso dell’Ade, il mondo degli inferi: un cane a tre teste, che simboleggiavano la distruzione del passato, del presente e del futuro. Tutto il corpo del cane era ricoperto, anziché di peli, di velenosissimi serpenti che a ogni latrato si rizzavano, facendo sibilare le proprie orrende lingue. Compito del mostro era quello di impedire ai vivi di entrare e ai morti di tornare indietro. In realtà nell’antichità il “nudo suolo” era definito Cerbero (o “lupo degli dei”) poiché ogni cosa seppellita pareva essere divorata in breve tempo.
Ed è con il nome “Cerbero” fu chiamata in codice una informativa di reato che poi divenne parte integrante del più ampio e complesso fascicolo giudiziario chiamato in codice “Medusa”, che nel giugno del 2012 si tradusse in un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 36 persone tutte affiliate alla cosca Giampà. Il nome di Cerbero è entrato nella lingua italiana per esprimere, per antonomasia e spesso ironicamente, un guardiano arcigno e difficile da superare.
Ma per il gruppo investigativo che indagò non fu difficile superare “l’assetto organizzativo” della cosca, radiografando così tutto il contesto criminale delle attività portate avanti.
Due anni di indagini che si tradussero nella cosiddetta Cnr (comunicazione di notizia di reato) che fu trasmessa alla Dda di Catanzaro che, poi, la fece confluire in un unico fascicolo chiamato in codice “Medusa”. Il fascicolo “Cerbero” era composto da oltre 5.000 pagine, all’interno del quale erano e sono contenute le schede informative di ben 98 persone, ritenute direttamente o indirettamente partecipi «dell’associazione per delinquere di tipo mafioso» organizzata e diretta «da Francesco Giampà alias U Prufessuri, in qualità di capo del locale».
L’attenzione degli investigatori, nella fase delle indagini, che sono durate per oltre tre anni, si pose complessivamente su 200 soggetti. Solo 98, però, finirono nell’informata inviata alla Procura distrettuale antimafia. Tra le migliaia di pagine della “Cerbero” sono riportate anche le testimonianze dei collaboratori di giustizia che rivelarono anche le modalità con le quali gli appartenenti alla cosca comunicavano tra di loro quando era in carcere, facendo ricorso alla lingua dei segni.
A spiegare la metodologia fu Angelo Torcasio che, rispondendo alle domande riferì testualmente, «Noi associati utilizzavamo una particolare mimica per individuare taluni personaggi importanti di cui era meglio non fare il nome nei colloqui che potevamo avere o a casa mia o in genere dove capitava, e in particolare vi posso riferire che quando volevamo indicare Vincenzino Iannazzo ci toccavamo il naso con l’indice poiché Vincenzino ha il naso un po’ storto, quando volevamo indicare Antonio Provenzano ci toccavamo con la mano la gamba poiché il predetto ha avuto un problema alla gamba in conseguenza dell’attentato subito, quando volevamo indicare Battista Cosentino ci portavamo la mano sulla fronte per imitare il gesto che lui spesso fa quando gli viene comunicata una cosa a cui non aveva prestato particolare attenzione».
Il collaboratore di giustizia riferì che a dare disposizione di «utilizzare questa particolare mimica» furono direttamente «Giuseppe Giampà e Vincenzo Bonaddio». Per quanto riguarda Giuseppe Giampà «non c’era una mimica particolare» ma precisò che tra gli «associati il Giampà veniva indicato sempre con uno dei suoi soprannomi». Nel corso delle indagini un altro elemento che emerse «è quello della possibilità per i detenuti della cosca Giampà di operare con una certa “libertà” all’interno della casa circondariale di Catanzaro – Siano, godendo di una sorta di trattamento “privilegiato”, dovuto al fatto che all’interno del carcere prestano servizio molte guardie penitenziarie di origine lametina, che di fatto avrebbero consentito ai detenuti della cosca di comunicare liberamente tra loro all’interno del carcere, anche in violazione di specifici divieti imposti dall’ordinamento penitenziario».
Emerse, altresì, che «con facilità le varie “imbasciate” circolano dall’interno all’esterno del carcere e viceversa, e che sono tollerati comportamenti non consoni nell’ambito dei colloqui carcerari (come parlare all’orecchio o comunicare attraverso il passaggio di pizzini)». Alcune guardie penitenziarie, poi, «si sarebbero rese “infedeli”, rendendo edotti i detenuti della cosca di eventuali attività intercettive a loro carico, avvisandoli, conseguentemente, di stare attenti». I collaboratori di giustizia hanno svelato anche il sistema attraverso il quale dal carcere uscivano le missive per essere consegnate all’esterno.
Il sistema con cui avveniva la trasmissione di queste missive manoscritte che contenevano direttive o messaggi su affari illeciti della cosca, fu descritto da Torcasio che precisò «i foglietti venivano ripiegati in modo da poter essere riposti ed occultati all’interno del polsino rivoltato della camicia o anche del calzino: poiché nella sala colloqui le videocamere sono poste agli angoli laterali, il detenuto ed il familiare hanno l’accortezza di effettuare il passaggio del bigliettino sotto il tavolo di plastica senza farsi riprendere dalla videocamera». In genere, inoltre, spiegò Torcasio, «il passaggio del bigliettino avviene nella fase di chiusura del colloquio, quando tutte le persone si allontanano, oppure all’inizio, quando sia il detenuto che i familiari sono in piedi e quindi, con le proprie sagome, impediscono la captazione di immagini da parte delle videocamere». Un altro metodo che riferì il collaboratore, ed utilizzato soprattutto nel periodo autunnale/invernale, è stato quello «di occultare i bigliettini manoscritti all’interno delle confezioni delle brioches Kinder, che vengono opportunamente tagliate da un lato dell’apertura con inserimento del biglietto all’interno e risaldatura dell’apertura mediante il calore proveniente da un accendino schermato da un cucchiaino». Questo sistema «non viene utilizzato d’estate perché non vengono vendute le confezioni Kinder».