Perseo: Muraca quasi un figlio d’arte

Perseo-Romano

di Claudia Strangis –

Lamezia Terme – Quasi un figlio d’arte. Così si può definire Umberto Egidio Muraca, collaboratore di giustizia che oggi, nel processo Perseo che si sta celebrando al Tribunale di Lamezia, davanti al collegio giudicante presieduto da Carlo Fontanazza e a latere da Francesco Aragona e Tania Monetti, è stato protagonista dell’esame del pubblico ministero Elio Romano. Collegato, come gli altri che lo hanno preceduto, da un sito riservato in videoconferenza, Muraca ha risposto alle domande della pubblica accusa che gli ha chiesto di ricostruire e raccontare in primis quale fosse il suo ruolo nella criminalità organizzata lametina. Il pentito ha esordito spiegando di “esserci nato”, lui che porta il nome del nonno paterno, ucciso insieme alla moglie l’otto febbraio del 1989 in un agguato di mafia. “Mio nonno era uomo di ‘ndrangheta – commenta Muraca – nemico dei Iannazzo”. E furono proprio loro, secondo il pentito, insieme a Giampà “tranganiello” ad organizzare il suo omicidio. “A mio nonno piaceva la pace ma non la droga che cominciava a circolare a Lamezia in quegli anni”. “Lui – continua Muraca – era un padrino di ‘ndrangheta, un personaggio di spessore, aveva battezzato Raffaele Cutolo, aveva legami con i Bellocco e aveva anche partecipato alla formazione della Sacra Corona Unita in Puglia”.

Muraca in video conferenza

Muraca in video conferenza

Una storia familiare criminale di spessore che, quasi per forza, doveva vederlo protagonista. Muraca ha raccontato, oggi nell’aula Garofalo del Tribunale lametino, dei suoi esordi nel ’96 quando, vicino ai Torcasio, cominciò con un’estorsione ad un bar su viale Stazione, per poi proseguire dal 98 al 2002 con lo spaccio di sostanze stupefacenti e rapine. Costituì un gruppo autonomo con il quale compì una rapina ad un notaio che gli fruttò 20mila euro di bottino. Una rapina sbagliata perché nella zona di influenza del clan rivale dei Giampà e fu allora che, per intercessione di Claudio Paola, fu contattato dal boss Giuseppe Giampà che gli disse che “se volevo muovermi dovevo rivolgermi a lui”. “Non ero più legato al 100% al clan Torcasio dopo i fatti di sangue” così ha spiegato in aula il suo passaggio all’altra consorteria criminale lametina, a cui rimase legato, come è stato lui stesso a precisare, fino al 2007/2008 per poi transitare nuovamente in quella dei Cerra-Torcasio-Gualtieri. Tutto cambia nel 2011.

il pubblico ministero Elio Romano

il pubblico ministero Elio Romano

Incalzato dalle domande del pubblico ministero, il collaboratore, raccontando della sua attività estorsiva per conto dei Torcasio, ha ricordato l’estorsione al “Martinica” nel territorio dei Giampà. Lo “sconfinamento” non piacque al boss dei Giampà che gli ricordò, sempre tramite Claudio Paola, come quello non fosse il loro territorio. I Torcasio proposero la divisione dell’estorsione ma “la cosa puzzava e Giuseppe Giampà era arrabbiato” tanto che, due giorni dopo l’avvertimento, avvenne l’agguato sotto casa di Muraca. “Ero con Francesco Angelo Paradiso sotto casa mia, vidi movimenti strani di una macchina e non mangiai la castagna”. Dalla macchina sospetta scese un uomo che gli sparò un caricatore addosso e Umberto Egidio Muraca si salvò solo perché riuscì ad entrare nel cancello di casa. “La prima reazione fu la vendetta – ha confessato Muraca – quindi andai dai Carrà che mi promisero il loro appoggio ma dissero anche che non era periodo e che per la vendetta avremmo visto più in là”. “I Giampà mi spararono per conto dei Torcasio – ha spiegato il pentito – e io che vado a regalare la mia pelle così?”. Da lì il chiarimento con Giuseppe Giampà, il riconoscimento dell’errore dello “sconfinamento” e la promessa di uno scambio di favori: Muraca avrebbe dovuto consegnare al “padrino”, Francesco Torcasio “Carrà” che “aveva il sangue agli occhi”, come ha commentato oggi in aula Muraca, per l’uccisione di suo padre Vincenzo. Se avesse aiutato Giuseppe Giampà ad uccidere Francesco “Carrà”, Muraca avrebbe avuto in regalo 20mila euro, “io, però, – ha spiegato il pentito – volevo capire la strategia di Giuseppe Giampà”.

aula-tribunale

Muraca consegnò effettivamente Francesco Torcasio alla cosca rivale, tendendogli un’imboscata la mattina del 7 luglio del 2011. Quel giorno dovevano compiere una rapina e, dopo che Muraca spiegò dettagliatamente la programmazione al boss, Giuseppe Giampà fece uccidere il “Carrà” davanti il supermercato in via Misiani. Il gruppo delle “nuove leve”, ha raccontato il pentito, cominciò a compiere estorsioni per conto dei Giampà: “per quelle sotto i 10mila euro, dividevo i soldi con il mio gruppo; per quelle superiori ai 10 mila, dividevo anche con Giampà, a patto che avremmo dovuto uccidere gli altri Torcasio. Non ammazzammo – ha spiegato Muraca – ma prendemmo piede a Capizzaglie. Eravamo noi, i Cerra e i Giampà contro i Torcasio, e ci dividevamo i soldi delle estorsioni”.
Un uomo di ‘ndrangheta, decisosi a collaborare dopo gli arresti dell’Operazione Medusa, che aveva avuto modo di conoscere, con i suoi passaggi dall’uno all’altro clan della mala lametina, quasi tutti i personaggi di spicco dell’ultimo ventennio. Oltre a raccontare dei suoi trascorsi criminali, il collaboratore ha avuto modo di spiegare quale fosse il sistema delle truffe assicurative che, soprattutto negli ultimi anni, fruttò molti soldi al clan Giampà. Parlando della figura di uno degli imputati, Franco Trovato, Muraca ha raccontato che era “uno che si sapeva muovere. Aveva una carrozzeria, scambiava i pezzi, conosceva il perito. Era il numero uno delle truffe perché aveva agganci con assicurazione e avvocati” ha commentato il pentito che ha poi aggiunto “l’importante era che le macchine venissero smontate e rimontate bene”. Tutto, comunque, secondo le parole del collaboratore, avveniva nella carrozzeria di Franco Trovato e “tutto girava intorno ai Cid, senza – ha specificato – non si poteva fare niente”. “Sulla scrivania di Franco Trovato – ha detto in aula – ne ho visti anche 20, 30 tutti insieme”. Il meccanismo delle truffe, come già spiegato più volte, si concentrava sulla vendita dei Cid che, per chi prestava il proprio nominativo e i propri dati, rendeva dai 500 agli 800 euro. Secondo il pentito, che ha confermato oggi in aula, le pratiche venivano gestite dai due avvocati “a disposizione della cosca”, l’avvocato Chicco Scaramuzzino e l’avvocato Giuseppe Lucchino; mentre il medico che forniva i certificati falsi era il dottore Carlo Curcio Petronio “per 30/40/50 euro”.
Il pentito, che ha risposto oggi alle domande dell’accusa, risponderà, nell’udienza di venerdì, alle domande della difesa per il controesame.