Lamezia: tra miti e leggende la storia di Donna Rosina

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Lamezia Terme – Nicastro, nome dal suono aspro remoto, sorge a ridosso di una collina; gregge di case, abbarbicate l’una sull’altra, rosse per i tetti dalle tegole di cotto, che fa tutt’uno con i ruderi del castello Normanno ritto alla sommità, da secoli simbolo contro il cielo; è parte stessa del paesaggio, inalienabile.
Alle falde scorre il fiume, che, ramificandosi, ne lambisce incessantemente le fondamenta, corrodendole in gara col tempo e l’opera degli uomini. Dalle vie a zigzag congiungendo alla pianura, la vecchia alla Nicastro nuova, frutto nel periodo postbellico estesa, moderna, dalle strutture nuove ed uguali.
La parte superiore, il paese vecchio è denominato S. Teodoro: ci vivono famiglie di contadini, indigenti, di qualche modesto artigiano.
Unico fabbricato imponente è un palazzo dalla forma rettangolare – proprietà di una doviziosa famiglia – di cui diverse dinastie nei secoli si contesero il possesso, divisa tra quattro strade. Internamente vi è un atrio con piscina, un giardino, una cappella e numerose stanze. Occupa svariati metri quadrati. In altezza si articola in tre piani. Un grande porticato, lavorato finemente con un rosone al centro ed ai lati lo stemma baronale della famiglia, contribuisce ad imprimergli un aspetto imponente e di austerità, che lo pone in netto contrasto con le numerose case dei dintorni.
A levante una scoscesa strada, poco transitata per la forte pendenza, celebrato nel ricordo dei vecchi degli sdruccioloni del tempo notevole lo separa dalle case, addossate al lato opposto. Sotto una di queste, un arco, a ferro di cavallo, apre l’accesso a un vicolo sul quale si raggruppano. Le finestre e le canne di bambù assicurate ai davanzali per asciugare al sole lunghe file di panni.

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Tra questi fabbricati resi quasi identici dal colore delle pietre uno scantinato, il cui fondo in terra battuta è protetto dalle acque piovane da un gradino sopraelevato. Durante le piogge torrenziali, detriti ed acque trasportati lungo la scoscesa via si infiltrano nel vicolo e battono al gradino. L’acqua, copiosa, raccogliendosi ai bordi della strada, si trasforma in un torrente in piena, finché la gente del vicolo è costretta a ricacciare l’acqua dalle case.
Lateralmente e esternamente all’ingresso dello scantinato è costruita una scala a due rampe con al centro un pianerottolo. Edificata con mattoni misti a frammenti di pietra, da accesso ad un pianerottolo sopraelevato, è costituito da una stanza rettangolare estesa (poco più di venti metri quadrati) il cui soffitto è composto da un tetto a spiovente. Una grossa trave di legno al centro con listelli laterali, posti trasversalmente, sorregge le tegole come la carena di una barca.
Nella stanza un caminetto a mattoni, un letto in ottone si oppone a un tavolo in legno massiccio, il vecchio cestino sul treppiedi in ferro battuto, un baule di forma ovale ed un buffet con più cassetti sovrastati da uno specchio a semicerchio. Anche qui l’acqua fa da padrona e i recipienti nei punti più disparati avvertono dove le tegole del tetto hanno da tempo ceduto alla violenza della natura.

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In quest’abitazione dimora una donna di veneranda età. E’ nata nell’ultimo periodo dell’800, ma non ricorda con esattezza quando: a vederla non le si dà più di 70 anni. Il volto, nonostante le numerose rughe, rivela i segni ed i lineamenti di antica bellezza; i capelli bianchi, dopo essersi diramati dal centro della fronte con una linea mediana, che li divide nettamente a metà, scendendo fin sopra le orecchie, quasi coprendole, per ricongiungersi, poi, nel retro della nuca – ove raccolti ed intrecciati con arte – formano un vistoso “tuppo”. Le labbra sono sbiadite ed asciutte; gli occhi stanchi esprimono insieme bontà, rassegnazione, coraggio; il collo è esile da far trasparire le vene; le mani appaiono scarne. Il portamento è dignitoso, nonostante il passo lento e il camminare incerto, indifferente al mondo esterno. Sembra chiusa in se stessa, nel suo mondo. Non è per nulla cambiata nella mentalità, nei concetti, nelle tradizioni,; perfino il vestire rivela questo suo modo di essere, di concepire la vita. Indossa come abito il vestito della “pacchiana”: l’antico costume tipico del luogo, che è rimasto retaggio di tradizioni lente a morire.

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Sono, ormai, poche le donne che indossano simili costumi, prevalentemente le mogli dei contadini, che la civiltà e la moda non sono riuscite a trasformare, soprattutto perché in questa zona il turismo è quasi inesistente.
Tuttavia, il costume di “pacchiana” è, e rimane, uno tra i più belli per la varietà dei colori, per la ricchezza del vestiario, per il sontuoso ricamo di cui è ornato, per i merletti lavorati all’uncinetto.
La testa è coperta da uno scialle color cammello, dalla frangia, che lascia intravedere il volto e parte del collo; il seno è celato da un busto di velluto nero, copiosamente ornato di merletti, nel retro, ove si ricongiunge, viene allacciato da una estremità all’altra; una camicetta di color avorio, di seta o di lino, tessuto nei telai del luogo, con pizzi all’estremità del collo e delle maniche appare sotto il busto e un fazzoletto di seta, dopo aver formato sulle spalle un grande cuore, si diparte dal collo e scende sotto il seno. I bordi sono fermati al centro del busto da una spilla d’oro; una sottana bianca scende fin sulle scarpe a punta, sempre lucide, con tacco di media altezza; un manto rosso viola o nero (secondo che trattasi rispettivamente di donna sposata o zitella o vedova) copre quasi l’intera sottana, lasciandola intravedere nelle estremità. Sul davanti il “mantisinu” nero. Alla vita si avvolge la “coda” , tutta piegata che consiste in un indumento di flanella, color cammello o verde cupo, che raccolta nel retro scende a coda (donde il nome) fin sulle scarpe. E’ in media lunga 13 metri per cui, quando si scendono rampe di scale, viene sollevata a semicerchio per evitare che possa, inavvertitamente nei movimenti del corpo, finire sotto le scarpe. Due orecchini su cui è scolpita la testa di una regina, una collana di oro massiccio avvolta intorno al collo, la civettuola spilla sul busto, danno risalto al tradizionale costume.
Così veste donna Rosina – ovviamente con panni più modesti e con meno “oro”, già venduti per poter acquistare viveri in momenti di particolare bisogno, o donato alla vicina quale compenso per favori ricevuti o regalato alla commarella il giorno della cresima.

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Questa donna, rimasta sola con se stessa, faceva parte di una modesta famiglia: il padre, uno dei migliori artigiani in falegnameria, guadagnava bene per tirare avanti; la madre, di vecchio stampo, generosa, timorata di Dio, è ricordata come donna fedele allo sposo ed amata dai figli per la continua dedizione senza nulla pretendere. Due figlie, quasi di uguale età, che le circostanze della vita divisero giovanissime, erano dedite ai lavori di casa e del ricamo. La prima, per cause fortuite, è finita sposa ad un emigrato russo in Brasile; la seconda è rimasta sola in Italia per non aver voluto ne contrarre matrimonio, ne seguire la sorella al di là dell’Oceano. Tutti la chiamavano donna Rosina. Si vedeva raramente fuori casa: la mattina prima dell’alba e la sera quando tramontava il sole; precisamente allo scoccare dei ritocchi della campana della chiesa, sita nelle vicinanze. E’ prima ad entrare ed è prima ad uscire. Sempre al suo posto, curva con la testa bassa e coperta fino a nascondere il viso con esclusione degli occhi, inizia un rosario, lo termina per iniziarne un altro fino alla durata della S. Messa; non si volta indietro, ne si lascia distrarre. Segue le funzioni religiose con impeccabile puntualità e per non essere presente deve star male. Considerare la religione come elemento indispensabile e vitale per la sua esistenza. Nessuna cosa ha per lei più significato, se avulsa dalla religione. Ritiene i sacrifici necessari ed indispensabili per meritarsi un posto in Paradiso, non si lamenta delle sue condizioni di vita.
Il resto della giornata lo trascorre in casa; assistendo alcuni bimbi del vicinato.
Cucina sui fornelli a mattone ed alimenta il fuoco, soffiando sui carboni e sulla legna. Un pò di pasta o dei fagioli conditi con olio, un pò di pane, qualche fetta di formaggio pecorino o una tazza di latte o qualche uovo al tegame costituiscono il suo quotidiano nutrimento.
I vicini, la maggior parte gente che vive con i lavori dei campi, sono costretti a lasciare a lei in custodia i figli minori.
A tal fine, ogni bambino porta un bancherello o una sediolina, che vengono disposti, quando piove, nello scantinato l’uno accanto all’altro a semicerchio; quando invece vi è il sole, all’aria aperta del vicolo, ove stanno al sicuro perché non circola alcun mezzo. Portano un paniere di vimini, dove le mamme mettono la colazione e la frutta. Allo scoccar di mezzogiorno, dopo aver fatto il segno della croce, si passa alla merenda e donna Rosina coglie il momento per prendere un boccone. Quando è il vespro, ogni mamma, ritornata dai campi, riprende il figlioletto.
Donna Rosina, consegnato l’ultimo rampollo, indossa lo scialle di seta purissima, coprendosi la testa e si reca in chiesa per assistere alle funzioni vespertine.
Il compenso per custodire i piccoli di pochi spiccioli pagati a fine mese. E’ un asilo in embrione: alle femminucce insegna l’arte del ricamo e l’uso dell’uncinetto.
Tutti i vicini la stimano: è donna di ben note virtù. Se qualche povero si reca da lei per chiedere l’elemosina non si allontana senza prima aver diviso il pane, che ha acquistato, o la frutta, che le è stata regalata. Tra i conoscenti, una ragazza di nome Rosa ha avvertito per questa donna un sentimento che va al di là di una apprezzabile amicizia. Ha, perfino, voluto che fosse lei a farle da madrina della cresima ed in virtù di tale rapporto si sente particolarmente obbligata a starle vicino quando è ammalata, a scambiare con lei qualche parola, ad aiutarla.
Non gode di alcun assistenza sanitaria ne pensionistica. Si è rivolta a questo o quell’istituto assistenziale, ma la sua domanda è rimasta inevasa, inabbissandosi nel labirinto della burocrazia. Ne tanto meno la fortuna le è propizia nelle piccole circostanze o modesta situazioni. Una volta un ente doveva distribuire dei pacchi, contenenti pasta ed altri generi ai bisognosi del paese e dei dintorni. In attesa che pervenissero i nominativi dei cittadini iscritti ufficialmente negli elenchi dei poveri, un Comitato ristretto propose di segnalare alcuni nominativi di persone bisognose, che, per varie ed ovvie ragioni, non figurassero negli elenchi richiesti. Furono indicati alcuni nomi e vi fu chi propose donna Rosina, conosciuta come Viola Rosina. Il pacco assegnatole fu consegnato ad un’altra donna che portava le stesse generalità. L’equivoco si verificò perché il vero nome di battesimo era Cantafio, essendo quello di Viola un soprannome.
Tutte queste avversità non scoraggiano donna Rosina, che abbraccia tutto con francescana rassegnazione e ringrazia ogni dì ugualmente Dio per averle concesso un altro giorno di vita. E’ contenta del modo di vivere. Pensa a quelli che, pur avendo una famiglia, non riescono a trovare lavoro; pensa agli emigrati; pensa a quelli che, pur avendo in abbondanza beni, non sono contenti perché lontani da Dio, perché troppo legati alle cose terrene.
Donna Rosina, pur nella sua individualità, è un esempio di virtù. Perfino durante la guerra fu diversa dagli altri, senza dubbio a causa del suo carattere. Volle restare lì: nell’ambiente che conosceva bene. E’ vero che quasi tutti avevano cercato di porsi al sicuro nei paesetti di montagna poco accessibili, ma lei sapeva di essere sola e che la sua vita aveva il valore che Dio voleva donarle. Per fortuna la guerra lasciò quasi intatte quelle zone e donna Rosina continuò la sua vita, come sempre.
In una estremità dello scantinato mantiene un pollaio con un gallo, una dozzina di galline nostrane ed altrettanti pulcini, che ogni mattina lascia liberi nel vicolo. Costituiscono per lei una distrazione, uno scopo. Di tanto in tanto, durante il giorno, quando si allontana più del previsto, si sente donna Rosina chiamare a ripetizione “piu! piu! piu!”; “torna indietro”; “il tuo posto è qua”; “non ti allontanare”; “domani non ti farò uscire”. E’ come se parlasse a delle persone. D’altro canto si ha la sensazione che prestino ascolto alle sue parole. Le poche uova, che ottiene le vende, le regala o le distribuisce ai bimbi. Il gallo è nano e per i piccoli costituisce un attrattiva, determinata dal contrasto delle dimensioni con la vigorosità del canto.
Donna Rosina non conosce l’orologio, però il gallo con le sue abitudini, secondo le sue leggi naturali indica ormai per lei le principali ore della giornata. Su queste e sul sole, che si sposta quotidianamente sul davanzale della casa individua, con molta approssimazione, le altre ore ed a chi le domanda l’ora risponde: “sono quasi le undici, quasi le tre, quasi le cinque”.
Quando il gallo la mattina ha cantato, si è già alzata e vestita, pronta per andare in chiesa ai primi rintocchi. Al tramonto, quando il gallo canta di nuovo, è quasi prossima ad andare a letto, dove incomincia e ripete il rosario fino a quando il sonno non si sia impadronito di lei. La mattina sin dalle prime luci si ode il sue nome. Chi la incontra per strada mentre va a messa le rivolge per prima il saluto. La conoscono tutti nella zona.
“Buon giorno, donna Rosina!” “Andate a messa?” “Pregate anche per me”. Oppure si sente dire: “donna Rosina, vi posso lasciare subito Antonio, ché sto per andare in campagna?” “Oggi, è la raccolta dell’uva”. “”Vi porterò alcuni grappoli di zibibbo, di malvasia”. “No! Grazie!” “Lasciatemi pure Antonio,” “scendo subito,” “andate tranquilla,” “penso io a vostro figlio,” “con me starà contento”. “Vieni Antonio,” “fammi compagnia,” “andiamo a vedere i pulcini,” “uno sarà tuo,” “scegli quello che preferisci”. “Eccolo, quello laggiù!” “Non quello perché è di Caterina, la figlia del ciabattino”. “Allora quell’altro, là!” “Prendilo!!” “Dallo a me!” e mette nell’ala un nastrino rosso per distinguerlo da tutti gli altri.
Le pareti, ormai decrepite, consentono di tanto in tanto a qualche topo di far capolino per raccogliere le briciole cadute.
Un dì, appare un grosso topo e subito tra i bimbi si verifica lo scompiglio: chi fugge fuori, chi sale sugli sgabelli tra un vociare continuo: “Eccolo!” “Fuggi!” “Corri!” “Sali sulla sedia!” “Non ti muovere!”.
Donna Rosina corre a prendere la scopa. Nel frattempo, il topo è finito in un buco mentre il gatto, spinto dall’odorato, si apposta vicino ed attende paziente, silenzioso ma all’erta per avventarsi contro, non appena oserà uscire dal provvidenziale nascondiglio.
Il gatto sembra non respirare, ha i baffi e gli occhi fissi verso il foro, sembra che la sua tensione si scarichi su quei baffi filiformi, che si staccano nettamente da sotto il naso, e rimane accovacciato pronto al lancio.
I bimbi, ormai rinfrancati, guardano il gatto e vorrebbero tirargli la coda, ma donna Rosina li richiama: “State fermi!” “Il topo può uscire da un momento all’altro” e contemporaneamente alza la scopa, pronta a dare man forte al gatto perché il topo non deve sfuggire altrimenti in seguito ritornerà. Ma dopo un pò, ecco il topo fare capolino. Il gatto è pronto, teso in avanti: uno scatto repentino e, come un fulmine, piomba sulla preda. Donna Rosina assesta il colpo ed un miagolio prolungato e doloroso fa eco nel vano. E’ stato colpito alla testa ed in un baleno è scomparso dalla circolazione. Dove si è cacciato? I bimbi lo cercano nel piazzale. Ma nulla si vede. i più grandicelli non si trattengono dal ridere innanzi a questa scena. Ci vorrà del tempo prima che il malcapitato gatto possa riconquistare fiducia nella sua padrona e starà guardingo in un’altra analoga occasione preferendo all’appetitosa preda la propria incolumità.
Nella modesta abitazione non vi è ne acqua ne luce. Donna Rosina si reca ad attingere l’acqua alla fontana pubblica, nel rione S. Lucia, innanzi all’omonima chiesa: la mattina quando va a Messa e la sera quando va a ricevere la benedizione.
I recipienti, che porta, sono le cosiddette “vozze”, di varia grandezza e di foggia reale; che ancora l’artigianato locale riesce a far vivere nel tempo, tramandandosi l’arte da padre in figlio. Sono di terracotta bianca o rossa, sono di forma rotonda, panciuta, che terminano con uno stretto collo, da cui si dipartono due manici lavorati a forma di treccia. Alcune hanno la forma di un boccale. Ne porta in genere tre, di cui una sotto le ascelle e le altre tra le mani. In caso di necessità, come del resto accade quando sale o scende le scale, Quando deve aprire la porta, la passa nella mano sinistra, tenendo entrambe per le maniche.
Nelle altre ore del giorno si reca alla “Pidicchiusa”, dove scorre dell’acqua limpida e leggerissima, che, secondo le dicerie, è curativa per lo stomaco. Quest’acqua è stata convogliata e scorre continuamente attraverso due grosse cannelle che si versano in una lunga vasca di cemento.
Consente ai contadini di poter dare da bere al mulo o all’asinello e non è raro che al tramonto osservare alcuni contadini, che attendono nei pressi per dare da bere a turno, secondo l’ordine di arrivo, al proprio animale, che spesso li fa impazientire, ostinandosi a non voler bere. Un cane di media statura, legato alla cinghia, da sotto il ventre dell’asinello mantiene saldo il “basto”, cerca anche ivi di bere, indietreggiando per non ricevere qualche poderoso calcio dal somaro ostinato.
I numerosi ragazzi, mandati dalle madri ad attingere acqua, essendone nella maggior parte le abitazioni sprovviste, per potere arrivare salgono sulle pietre, ormai levigate, e fanno diverse acrobazie per attingere senza rompere la “vozza” e senza sfregiarla; cercando, nello stesso tempo, di non farsi bagnare dal getto continuo dell’acqua.
Quando due o tre ragazzi si incontrano, depongono le “vozze” e si mettono a giocare, dimenticando le madri che attendono l’acqua e queste, spesse volte, sono costrette a richiamarli a gran voce da lontano.
Anche donna Rosina si reca più di una volta al dì presso questa fonte, che sorge ai margini del fiume “Canne”, il noto della zone. Scorre tra le gole dell’Appennino fino a quando la collina, su cui sorge il castello e le case del rione S. Teodoro, determina la biforcazione. Durante il corso ruscelletti e torrenti portano le loro acque ad ingrossare quelle del fiume. Nel tempo freddo l’acqua che si riversa abbondante nel letto del fiume si infrange sulle pietre per giungere poi da una cascatella all’altra fino al mare e da lontano si ode il caratteristico rumore del fiume in piena. I bambini incuriositi corrono a vedere i detriti che le acque trasportano verso valle, arrampicandosi sui muri di protezione, che sorgono lungo le sponde, e le loro voci di commento, di entusiasmo e di stupore si mescolano al rumore delle acque, facendo unica eco. Donna Rosina è ormai tanto avvezza a queste cose che non le avverte più. Quando ciò si verifica e vede i ragazzi, che conosce quasi tutti per essere stati da piccini da lei li richiama: “State attenti a non cadere!” – “Non salite là!” – “Scendete! Potete farvi male!” Ma i ragazzi salvo qualcuno, sono così presi da quello spettacolo naturale – che non danno ascolto alle sue parole.
Scuotendo la testa e barcollando sotto il peso delle “vozze”, sature fino all’orlo, si avvia verso casa, percorrendo il breve tratto di strada, sempre la stessa.
Non è raro il caso di qualche bimbo, che incontrandola lungo il breve tragitto, la tira per la coda o per il mantisinu e le sussurra: “donna Rosina, mi dà un sorso d’acqua?” E lei con dolcezza poggia la bocca della vozza sulle labbra del piccolo e lo fa bere a volontà. A volte qualcuno le prende una delle “vozze” e gliela porta fino al davanzale della casa. Al che una carezza sentita lo ricompensa del generoso gesto.
Dopo quasi ogni viaggio, donna Rosina – avanzata negli anni – si siede, rimanendo così per alcuni minuti finché non si sia rinfrancata per poi riprendere il normale lavoro, che è per lei un necessario diversivo.
Pensava, e ne era convinta, di essere rimasta sola al mondo senza parenti. Dell’unica sorella nessuna notizia. L’avvento dell’ultima guerra mondiale aveva fatto perdere ogni pur minima tracci. Ma un bel giorno il postino le consegna una lettera. Essendo analfabeta, chiama la vicina di casa, perché vada da lei a leggere quella missiva giunta all’improvviso quanto inaspettatamente.
Non si è dato inizio alla lettura che scoppia a piangere. L’emozione ha il sopravvento. Si domanda stupita in un intimo soliloquio: “è vero o sto sognando?” La lettera inizia con una comune espressione ma così piena per lei di significato:
“Cara zia, mia madre aveva spesso parlato di te e per lunghi anni ho cercato di rintracciati attraverso il Consolato, quando finalmente sono venuta a conoscenza che tu esistevi. Voglio vederti ora, incontrarti, abbracciarti per rimanere sempre con te, per non lasciarti mai più. Scrivimi prima possibile.”
Da quel giorno le lettere si sono susseguite a ritmo sempre più intenso, finché in una lettera la data dell’arrivo della nipote a Napoli, quindi in Calabria.
La gioia provata mutava la sua esistenza. Voleva accogliere nel migliore dei modi la nipote, ormai adulta e moglie di un affermato industriale brasiliano.
Attende con impazienza e guarda ora per la strada, scrutando l’orizzonte, gustando il giorno dell’incontro.
Finalmente la lunga attesa viene coronata.
Da una lussuosa macchina scende una signora con il proprio consorte. L’abbraccio che ne segue, il suo perdurare di affetto, cancella in un attimo e per un attimo la differenza di tenore di vita.
– Come ricevervi? Ma zia, non ti preoccupare! E’ tutto prenotato all’Hotel. – Lascerai questa casa, e verrai con noi. – Non posso. – Ho le mie abitudini: conosco alla perfezione gli angoli della mia casa, la via che conduce alla chiesa, assaporo l’acqua che scorre dalla fonte, godo nell’essere attorniata dai bimbi, mi sento felice quando ascolto i rintocchi della campana. – Se mi conduci con te mi smarrirò perché da tempo vivo così: mi alzo quando è ancora buio, vado alla messa appena spunta l’alba e poi attendo i piccoli, che stanno con me fino al vespro e quando il sole tramonta ritorno in chiesa, immancabilmente al solito posto, per poi ritirarmi a casa ed a lume di candela mi dedico al lavoro del ricamo per guadagnare qualche soldo, che mi consenta di acquistare l’indispensabile. –
Così trascorrono i giorni. –
La nipote cerca di convincerla, facendole notare che queste cose potrà continuare ad eseguirle anche in Brasile, però vivendo in una casa decente senza dover attendere la carità dei vicini. “Hai troppo sofferto” – “Ma cosa vuoi? Sono vecchia, non ho mai viaggiato né sul treno né sulla nave.”
“Non ti preoccupare perché ci sono io. Dobbiamo stare insieme ora che ci siamo ritrovate. Quando ti guardo, ti ascolto mi sembra di essere con mia madre, consentimi di rivivere questi momenti, fà che continui ad illudermi. Non ti lascerò assolutamente, devi venire con me. Quando penso che vivi così, mi sento triste, come se ne avessi la colpa. Avrai una stanza per conto tuo con ogni comodità, sarai servita, avrai quello che vorrai, avrai il mio affetto.”

 

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I vicini dal canto loro pensano: finalmente finirà di soffrire. – Era buona, era generosa e Dio l’ha voluta premiare.
In un primo tempo esita ma poi la nipote riesce a convincerla. – “Ma tu non devi preoccuparti perché io penserò a tutto”. Passano i giorni, arriva la partenza per la nipote. Ora che donna Rosina ha l’affetto, che ha conosciuto l’unica parente che esiste al mondo, non vuole più privarsene. Esigenza che diventa sempre più impellente e che avverte maggiormente il giorno del distacco per cui le promette, quasi inavvertitamente, di partire.
Ma la casetta a chi lasciarla? Sa secondo le antiche opinioni, che partire verso le Americhe vuol dire non ritornare più e decide, consigliata dai vicini, di venderla. Quella famiglia benestante, che abita nei pressi, compra per poche migliaia di lire la modestissima abitazione. Alla comarella lascia i pochi panni ed i mobili in segno di gratitudine. Nei giorni che precedono la partenza donna Rosina si congeda dai vicini con apprensibile stato di emozione. La incoraggiano: “vada pure!” – “Vivrà almeno i giorni senza tanti pensieri, non così nella miseria.” – “Ha sofferto abbastanza per tutto questo tempo.” – “Non si preoccupi, va tra i parenti.” – “Vorrei averla simile fortuna.” – “Si ricordi: la fortuna bussa una sola volta e, poi, non torna più.” – “Ha visto sua nipote come è elegante?” – “Che signorona?” – “Cosa vuole? Perché si preoccupa tanto?” – “Quella si, è gente che sta bene!” – “Ci mandi a chiamare perché verremo volentieri.”
Alcuni piangono e lei si sente commossa, si asciuga qualche lacrima, lascia dietro di sé un vicolo, una casetta, la fontanella, i vicini, i bimbi – anzi – alcuni quel giorno erano venuti, come al solito, per stare con lei.
Ora si allontana e va verso la stazione. Cammina in un modo nuovo, come un automa. E’ quasi assopita, perché distolta dalla sua vita quotidiana. Alla stazione si trova tra tanta gente ed i pensieri più strani l’assalgono. Il treno arriva ed un acuto fischio la desta. Avverte il distacco graduale di tutto ciò che è suo. Non può una persona di colpo rinunciare alle abitudini, cambiare dalla sera alla mattina il proprio sistema di vita.

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Quando giunge alla stazione di Napoli, accompagnata dal vicino di casa, gli autobus e i taxi fanno sciopero per cui decidono di incamminarsi a piedi fino al porto e quando vi giungono la nave è sul punto di salpare.
Il mare, la nave sembrano lasciarla indifferente, il suo cuore si chiude, avverte solo gli abbracci, le raccomandazioni, le lacrime, i sospiri di coloro che partono come lei nel distaccarsi dai congiunti. Forse perché in quel momento sono più vicini a lei, vivono gli stessi attimi di amarezza, di tristezza.
I marinai tolgono gli ormeggi e tirano a bordo l’ancora. Uno degli uomini dell’equipaggio le grida: “Faccia presto!” – “Non vede? Si sta per partire.” – “Voi donne, la vita la prendete troppo comodamente!”
Ed appena vicina, la tira con uno strattone e la spinge dentro la nave, chiudendo subito dietro le sue spalle la pesante porta di ferro, il cui scricchiolio si ripercuote con tristezza nell’animo turbato di donna Rosina. Non ha la forza di voltarsi indietro e va diretta come un automa verso il primo posto a sedere più vicino a lei. Però, lì ad ogni movimento della nave barcolla ed un marinaio, che osserva la scena da lontano, le grida: “Ehi! Tu laggiù vuoi arrivare o no in Brasile? Vieni dentro a sederti su una poltrona, c’è posto per tutti.” – “Vieni! Vieni pure!” E mentre stava per entrare intravede un volto amico ed il suo animo si rincuora. E’ uno di quei bimbi che, ora divenuto adulto, parte in cerca di lavoro; il qual a prima vista, come è comprensibile non crede ai suoi occhi. Poi, si avvicina e chiede sommessamente: “E’ donna Rosina?” E prima che possa rispondere l’abbraccia come un figlio possa abbracciare una madre.

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Dopo giorni e giorni di viaggio finalmente all’orizzonte appare il Brasile, che diventa sempre più vicino. La gente di bordo grida entusiasta ed uguale entusiasmo si avverte tra quelli che attendono a terra l’arrivo della nave. Tra questi, i parenti di donna Rosina la chiamano più volte, agitando le mani “Zia Rosina, siamo qua.” Ma donna Rosina non vede e non sente. E’ troppo emozionata, è troppo preoccupata, pensa alla sua casetta, ormai non più sua, che ora considera una sontuosa dimora; ai bimbi che pur facendola alcune volte inquietare, le davano in compenso tanta gioia; all’acqua limpida e fresca, che assaporava facendola sgorgare dalla vozza; al pane di grano, fatto in casa, che unto nell’olio d’oliva faceva gola anche a chi era satollo; al bicchierotto di vino, offertogli dalla generosa vicina, che serviva a procurarle un pò di allegria; al canto del gallo; al sole che la riscaldava; al clima mite e temperato; ai rintocchi dolci, gravi e lenti della campana.
Allorché poggia il piede a terra, si sente tra le braccia della nipote, che la invita a salire su una lussuosa macchina con alla guida un autista in livrea. La macchina si avvia. Donna Rosina per tutto il viaggio, durato poco più di mezz’ora, risponde quasi per forza alle continue domande della nipote, risponde quasi sempre di si. L’automobile si ferma davanti al cancello di un’arabesca villa. Un cameriere si premura lo sportello ed a prendere i pochi bagagli e, poi, appare maestosa ed imponente la dimora in tutta la sua dovizia, in tutto il suo splendore, nel suo stile architettonico. Un ampio atrio dà adito a dei porticati, sorretti da colonne finemente intarsiate mentre al centro zampilla l’acqua da una scultura in bronzo e tutto intorno alberi di palme sature di datteri fanno ombra, la luce penetra dall’alto e gli effetti chiaroscuri trasformano in oasi l’ambiente circostante, un albero secolare porta i rami fino ai balconi e gli uccelli saltellano e cinguettano senza tregua. Una scala, di marmo bianco, con al centro una guida di velluto rosso cardinale porta al piano superiore, dove il corridoio è caratterizzato da una balaustra finemente lavorata con piccoli rosoni, putti alati che si alternano a levrieri. Non vi è particolare che non sia stato curato dall’artista. E’ coperta da vasi ornamentali, che contengono fiori e piante verdi come l’edera, le foglie copiose scendono penzoloni o si intrecciano tra gli ornamentali trafori. Quindi, si entra nelle stanze, le cui soffitte, decorate, rievocano vicende belliche miste a scene di mitologia: vi è la stanza di Giove, quella delle investitura, ecc., salotti e tappeti persiani arricchiscono e si armonizzano con l’austerità delle rappresentazioni pittoriche. Primeggia tra le numerose stanze quelle della musica, dove quadri raffiguranti Verdi, Rossini, Beethoven, spezzano l’uniformità delle pareti, che custodiscono una trecentesca arpa e un pianoforte di stile moderno. La stanza delle armi, che alle fantasie più accese richiama gli antichi conflitti tra Nord e Sud dell’America, nonché il salone per le cerimonie ufficiali, dove il pavimento è interamente coperto da uno spesso tappeto di colore verde bottiglia ed, infine, le stanze degli ospiti corredate dai più moderni conforti. I camerieri, che si notano nelle stanze, sono prevalentemente dei negri. Donna Rosina, che mai si era allontanata dal suo paese e che l’Africa conosceva solo il nome, rimane esterrefatta e prova quasi uno choc. Avverte timore vedendoli tutti neri con le labbra carnose, con i denti bianchi, che spiccano come lumini accesi al buio, con gli occhi scuri e pieni di vivacità, con i capelli nero corvino, ricciuti fino all’inverosimile che si confondono con l’epidermide. Non vuole assolutamente prendere il cibo da loro perché, a causa di quel colore naturale, teme che siano sudicie.
Quando ritornerà in Patria parlerà a lungo di questa razza del continente. In questa villa non si sente a suo agio, non si sente felice. Non può mutare di colpo le sue abitudini, avverte un senso profondo di malinconia, si sente solo tra tanta gente, accusa stanchezza e dolori inesistenti ma avvertiti come tali, si sente perduta tra tanta ricchezza. Sui pavimenti delle stanze, dove brilla la cera, cammina lentamente quasi a tentoni, temendo da un momento all’altro di scivolare. I cani, che gironzolavano per le stanze, le danno fastidio. Sono delle bestiole docili e graziose, ma quel saltare addosso o scuotere la coda per fare festa o leccarle la mano le procura un certo quel senso di disgusto. Lo squillo continuo del telefono la fa sussultare. Usare l’etichetta nel mangiare o nel camminare è per lei un grosso problema. Poi, salire nell’ascensore, è sentirsi prigioniera. Uscire fuori, immergersi tra la folla, nel frastuono della città, è come impazzire. Non sopporta su di sé gli sguardi degli altri. Andare in macchina è una continua palpitazione di cuore. Quella vita così diversa, così artificiosa la rende triste. Non riesce ad adattarsi. Avverte profonda la nostalgia della propria terra. Vuole ad ogni costo ritornare alle antiche abitudini perché sono la sua stessa vita. Vuole vivere la religione così come l’ha appresa dagli avi, in modo semplice, pregando e vivendo con rassegnazione giorno per giorno, sperando nella Provvidenza, convinta e sicura che Dio non abbandona mai alcuno.
Ogni volta che parla con la nipote non fa che ripetere: “se rimango qui sono finita, sono felice solo a casa mia, mi sento ricca quando sono povera.”
Il richiamo della propria terra diventa sempre più vivo, più assillante. Si affaccia dietro i vetri dell’ampio balcone, scostando la tenda, e scruta lontano l’orizzonte come se con lo sguardo volesse raggiungere una meta: “il suo Paese natio” e gli occhi si riempiono di lacrime e di malinconia.
L’affetto della nipote le ridà qualcosa, ma non riesce a colmare il vuoto che si è aperto intorno a lei. Qui ha tutto e non ha nulla. Lì si sentiva autosufficiente, padrona delle sue azioni, della sua volontà.
La nipote, immedesimandosi e dando il giusto valore alle espressioni, si convince che ha tolto alla zia l’elemosina vitale della sua esistenza, per cui decide di assecondarla, consapevole che consentire agli altri di agire secondo volontà è donare a questi la felicità e la gioia di vivere.
Ritornata al proprio Paese, il primo giorno trova alloggio presso la vicina di casa. Nel frattempo, la famiglia, che aveva acquistato la modesta abitazione, venuta a conoscenza del fatto nuovo, decise di metterle a disposizione la casa vita natural durante. E così donna Rosina riprende le sue abitudini, e crede nel frattempo di aver sognato e al sogno preferisce la realtà.
I bimbi ritornano: ognuno prende la propria sediolina ed il proprio posto e lascia che donna Rosina racconti l’esperienza vissuta in Brasile, che per loro suona come una fiaba e si stupiscono quando afferma di sentirsi felice lì, anziché nella sontuosa abitazione di oltre Oceano. Mostra qualche oggetto, che ha portato con se e le fotografie colorate, che ha nella borsa. E sorride quando il sole batte alla finestra, quando accarezza i bimbi, e sussulta quando i rintocchi della campana annunciano l’Ave Maria.
L’Amministrazione comunale, dovendo procedere ad allargare la strada per il crescente traffico, decide di eliminare alcune case, tra cui quella di donna Rosina. Quando si procede alla demolizione col cadere di calcinacci, vengono alla luce dei pregevoli dipinti, che raffigurano la Mecca, i palazzi ed i giardini musulmani quali si possono ammirare a Malaga, a Siviglia, a Damasco, a Beirut. Allora si intrecciano leggende popolari, si va alla ricerca di conoscerne l’origine, che si perde nella notte dei tempi. Secondo la tesi, che prevale e che fa credito, si racconta che quando i musulmani sbarcarono nel golfo di S. Eufemia Lamezia, uno di loro, animato da spirito di avventura, si allontanò e si diresse verso l’antica Neocastrum, oggi Nicastro, e fu alloggiato presso la casa, che con il passar degli anni doveva appartenere a donna Rosina, dove trascorreva parte del tempo a dipingere le pareti. La Sovrintendenza, informata della scoperta, dichiarò la casa monumento nazionale per cui donna Rosina è costretta ad andarsene, anche perché il continuo flusso di curiosi le rende, tra l’altro, poca tranquilla l’esistenza.
La comarella, legata da quel vincolo religioso, a cui, in alcune zone del Meridione si dà valore più che ad un legame di parentela, passata ormai a nozze, decide di prenderla con sé e così donna Rosina ha una famiglia, dove è ben accetta, perché con lei rivive e palpita un mondo antico.
Trascorrono così i giorni e gli anni. I bambini sono diventati adulti. Qualcuno, ricordandosi, passa ancora nel vicolo e chiama “donna Rosina”.