Perseo: Muraca nella cosca ognuno aveva le sue mansioni

Aula Tribunale Lamezia

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di Giuseppe Natrella –

Lamezia Terme – Appartenere ad una famiglia di ‘ndrangheta rappresenta anche un’occasione per lavorare. Per i cittadini ed giovani disoccupati onesti in cerca di lavoro questo concetto è un paradosso, ma è del tutto normale per chi appartiene ad una famiglia mafiosa. Proprio così, essere un mafioso è sinonimo di lavoro. E’ una realtà che contrasta con il mondo civile, con le regole del mercato e della legge, ma i mafiosi intendono l’appartenenza ad una ‘ndrina un criterio per lavorare. E’ una verità amara, ma è ciò che emerge dalla lettura di un verbale di Umberto Egidio Muraca, diventato collaboratore di giustizia dopo essere finito nella varie inchieste dalla Dda di Catanzaro, il quale, nella esposizione del suo concetto di ‘ndranghetista, nonostante fosse il titolate di un negozio insieme al padre, ha spiegato che “l’essere associato ad una cosca di ‘ndrangheta generalmente è considerato come un lavoro”. Un lavoro pericoloso, ma che lui riteneva redditizio e proficuo e che veniva pianificato quotidianamente attraverso riunioni nel corso delle quali venivano impartiti sintetici ordini operativi. Muraca, infatti, ha spiegato agli inquirenti che “noi della cosca Cerra – Torcasio – Gualtieri, alla quale io appartengo come ho dichiarato dal 2008/2009 fino alla data in cui sono stato arrestato, tutti i giorni noi della cosca ci associavamo, vedendoci o contattandoci per telefono o tramite facebook e comunque tenendoci aggiornati delle illecite attività della cosca attraverso le cosiddette ambasciate”.

Ed in particolare lui ed il suo gruppo delle nuove leve, di cui era diventato il “capo” insieme agli altri affiliati alla cosca, si dedicava “in particolare all’acquisto di droga, in altri casi facevamo estorsioni, in altri ancora giravamo per il territorio per verificare la presenza di nuovi cantieri e nuovi lavori edili ai quali poi chiedere in un secondo momento l’estorsione”.

Le perlustrazioni ha spiegato Muraca “rientravano nelle attività di controllo del proprio territorio di ‘ndrangheta da parte della cosca. Queste avevano carattere di periodicità ovvero tutti i giorni, e servivano a verificare sia la presenza di nuovi cantieri e lavori edili, sia la presenza di movimenti ostili da parte di cosche avversarie, sia per controllare la presenza di forze dell’ordine, e comunque al fine di tenere sotto controllo il territorio di nostra influenza. Le citate perlustrazioni venivano effettuate a bordo di auto e/o moto, noi eravamo sempre armati e per come mi chiedete, nel caso in cui avessimo notato la presenza di sospetti male intenzionati nei nostri confronti, essendo armati potevamo già subito rispondere al fuoco o altrimenti, se vi era tempo, portavamo l’ambasciata alla nostra cosca al fine di organizzare meglio l’azione di fuoco, quindi ci procuravamo i caschi, i guanti, panni vecchi che venivano poi bruciati, si decideva chi doveva bruciare i caschi e gli indumenti, potevamo indossare anche fino a tre paia di guanti, sottocasco, al fine di evitare che la polvere da sparo, che perdura sul corpo, potesse essere rinvenuta dalle Forze dell’Ordine perché non va via con acqua e sapone ed entra nelle narici, orecchie, ecc”. E quindi come “cosca facevamo delle riunioni – ha spigato Muraca – per discutere sulle cose da fare nelle zone di influenza, per provvedere al mantenimento dei carcerati, a quello nostro e delle nostre famiglie, per risolvere gli eventuali dissidi presenti all’interno della cosca”. Le principali attività erano le estorsioni e la droga. E, ha spiegato Muraca, “con il denaro ricavato acquistavamo altra droga, armi, automobili, case, garantivamo sostegno economico agli affiliati”. E nel descrivere il sistema operativo ed organizzativo il collaborare di giustizia ha riferito che “nella cosca ognuno aveva le sue mansioni: chi preparava gli atti intimidatori, ovvero confezionava bottigliette incendiarie e bombe, chi acquistava armi, chi spacciava sostanze stupefacenti, chi chiedeva le estorsioni”. Ma c’era anche chi “nelle riunioni decideva l’eliminazione fisica di appartenenti alle consorterie criminali sia avversarie che, in alcuni casi, anche proprie”. Comunque per come ha riferito il collaboratore di giustizia “questa metodologia non era conosciuta da tutti gli affiliati in genere, ma solo da quelli che avevano compiti nelle azioni di fuoco”. E la “scelta degli affiliati da inserire nei gruppi di fuoco veniva effettuata dai capi cosca che all’affiliato chiedevano se se la sentiva di prendere parte all’azione di fuoco o di fare altro in base alle sua attitudini”. Muraca nella ricostruzione ha riferito che “venivano fatte riunioni ristrette alle quali partecipavano solo gli affiliati interessati nell’azione di fuoco ed i capi della cosca, per organizzare gli omicidi”. E per “per quanto concerne gli omicidi, questi non venivano portati a conoscenza di tutti gli affiliati”. Tecniche omicidiarie che il Muraca ha appreso “anche in tempi passati, da Giuseppe Giampà, inteso “il presidente”, poiché “io ho sempre frequentato personaggi di alta caratura criminale”. Il collaboratore di giustizia ha precisato “inoltre che in passato, per conto di un appartenente alla cosca Cerra – Torcasio – Gualtieri, avrei dovuto eseguire l’omicidio di Giovanni Governa, quando questi apparteneva alla predetta cosca, poiché era ritenuto responsabile di un duplice omicidio di soggetti appartenenti all’omonima cosca”. Delitto che poi non fu portato a termine perché probabilmente Governa per prudenza non si recò nel luogo dove gli era stato teso l’agguato.