Perseo: Cappello, “dovevo scegliere o uccidere Giuseppe Giampà o collaborare”

pereso-udienza29-05

di Stefania Cugnetto
Lamezia Terme – Protagonista dell’udienza odierna del processo Perseo, è stato il cosiddetto capo della montagna, uno degli adepti della cosca Giampà che insieme al figlio controllava e dominava l’area nord di Lamezia, a cavallo tra Nicastro e Platania. In un italiano misto a dialetto, Cappello ha raccontato la sua verità sulla cosca alla quale apparteneva, definendosi componente della cosiddetta commissione, di cui, secondo quanto ha riferito oggi in aula, avrebbero fatto parte Vincenzo Bonaddio, Giuseppe Giampà, Aldo Notarianni e Pasquale Giampà (Millelire), componenti, che secondo il pentito sarebbero tutti battezzati e con alte doti di ‘ndrangheta. Rosario Cappello, però, ha una storia criminale che inizia già negli anni 80, anni in cui Cappello venne battezzato da Francesco Giampà, detto “il professore”. Il collaboratore ha riferito, che negli anni 90, lui e la sua famiglia erano vicini alla “famiglia” Torcasio, definita da Cappello “quella dei crapari”. Il collaboratore ha, poi, raccontato il suo passaggio dalla  clan dei  Torcasio  a quello dei Giampà avvenuto, tramite un avvicinamento di Vincenzo Bonaddio che l’avrebbe avvertito di un eventuale agguato che i Torcasio stavano preparando nei suoi confronti. “Bonaddio mi ha detto di starmi attento ai Torcasio – ha affermato – e mi ha proposto di allearmi con la cosca Giampà”. Cosca, alla quale si era già legato il figlio del Cappello, Saverio, ora collaboratore di giustizia. L’evento che sancì l’unione tra la ‘ndrina della “montagna”, a cui appartenevano i Cappello e gli Arcieri, e la famiglia Giampà è avvenuto, secondo il collaboratore, durante una riunione in casa dello stesso, dopo l’omicidio di Pasquale Giampà, detto “Boccaccio”.

OmicidioGiampa-29-05

“Bonaddio sospettava di me, pensava che io avessi partecipato all’omicidio di Pasquale Giampà, Boccaccio, ma io non c’entravo niente e poi abbiamo chiarito e ci siamo uniti”. Un’unione che prevedeva la divisione di proventi delle estorsioni, spaccio di stupefacenti, e soprattutto traffico di armi. Cappello, infatti, deteneva le armi per la cosca Giampà, “le nascondevo sotto terra vicino casa mia, e quando servivano le mettevo a disposizione della cosca”. Armi che sono servite per azioni omicidiarie commissionate dai Giampà. Cappello ha, infatti,  indicato che l’arma utilizzata per l’omicidio di Federico Gualtieri era stata consegnata da lui a Vincenzo Bonaddio. Ma non solo armi, il collaboratore ha raccontato anche di aver nascosto, per conto di Giuseppe Giampà, dell’esplosivo: “ho nascosto 4/5 kg di esplosivo, me l’ha chiesto Giuseppe Giampà”.  Cappello ha riferito anche su un’altra cosca lametina, che è stata colpita nelle settimane scorse da un’inchiesta, quella dei Iannazzo. I rapporti tra la famiglia Giampà e quella dei Iannazzo, secondo il collaboratore, erano “buoni”: “ho organizzato io l’incontro tra Vincenzo Bonaddio, Giuseppe Giampà e Vincenzino Iannazzo, ho chiamato Adriano Sesto e abbiamo organizzato la riunione nella sua concessionaria”. Una riunione, in cui, per come ha riferito Cappello, le due famiglie si sarebbero divise il territorio a fini estorsivi, arrivando alla decisione di dividere i proventi delle estorsioni sui terreni che confinavano tra Sambiase e Nicastro, tutta la zona di Sant’eufemia e dell’ex Sir e anche per i lavori che interessavano l’autostrada. Il collaboratore ha poi spiegato di essere stato sostituito nel ruolo di intermediario tra le due famiglie da Angelo Torcasio. La famiglia Cappello si occupava, come ammesso dal pentito, anche di traffico di stupefacenti, “mio figlio portò 1 kg di cocaina dalla Svizzera e Maurizio Molinaro la venne a prendere a casa nostra per portarla a Giuseppe Giampà”. Altro capitolo della sua storia criminale è stato quello sull’estorsioni, atti che il Cappello svolgeva insieme al cognato Vincenzo Arcieri e Pino Strangis, soggetto che ha definito “interno alla nostra cosca”. Tra le estorsioni compiute dal Cappello, il collaboratore si è concentrato su quella ai danni di un imprenditore di Decollatura che stava svolgendo dei lavori sulla super strada, ed al quale lui e suo cognato chiesero il 2% sul guadagno. Il collaboratore nel suo racconto ha indicato tutti i componenti alla cosca Giampà e tutti gli atti omicidiari decisi dalla commissione in quegli anni.
Ha concluso il suo esame diretto, Rosario Cappello, esponendo al Tribunale il perché della sua scelta collaborativa, “avevo capito che o dovevo uccidere Giuseppe Giampà e Vincenzo Bonaddio, perché le cose si stavano mettendo male, oppure dovevo collaborare”. Una decisione, che il collaboratore, ha riferito di aver preso di comune accordo con il figlio Saverio, “per uscire da tutti questi anni di delinquenza”, ha chiosato. Si tornerà in aula venerdì prossimo, giorno in cui Rosario Cappello dovrà rispondere alle domande degli avvocati della difesa.