Errori giudiziari: a che punto siamo?

tortora-enzo–  A cura dell’Avvocato Anna Moricca  – Lamezia Terme – Negli Stati Uniti è stato istituito da alcuni anni il Registro Nazionale degli Innocenti.
Nel sito inerente sono raccolte tutte le persone esonerate che sono riuscite ad ottenere l’annullamento dei loro verdetti di colpevolezza perché ingiustamente condannate.
Questo fa capire quanto sia alto il numero di casi di errori giudiziari, non solo negli Stati uniti, ma anche nel nostro Paese. La percentuale in Italia è di 22.300 persone risarcite dai danni in 22 anni, ma i casi in totale sono molti di più: circa 50.000.
Le storie di errori giudiziari sono davvero tante, di seguito ne raccontiamo 7, alcuni dei più famosi nella storia.
HurricaneCarter

Uscì nel 1999 il film “Hurricane. Il grido dell’innocenza” ispirato dal caso del giovane RubinCarter. Rubin fu un pugile tra il 1961 e il 1966, condannato a due ergastoli per triplice omicidio e scarcerato nel 1985. Nella sua biografia, si legge di un ragazzo che ha da sempre avuto qualche problema con la giustizia; scontò infatti 4 anni per rapina e aggressione. Fu in questo periodo che si appassionò alla boxe, fino a diventare uno dei pugili migliori nella categoria pesi medi. Per l’aspetto aggressivo e per le vittorie venne soprannominato Hurricane, uragano. Nel giugno del 1966 ci fu una violenta sparatoria in un bar nel New Jersey dove rimasero uccise 3 persone. Una donna disse poi ai poliziotti di aver visto due uomini di colore scappare dal bar su un’auto bianca. L’auto di Carter corrispondeva alla descrizione fornita dalla donna. Nonostante nessuno dei testimoni riconobbe Carter egli fu arrestato e nella sua auto fu trovata una pistola dello stesso calibro usato per la rapina. Dopo una serie di processi, venne rilasciato anche grazie a un ammiratore che lo aiutò, assieme agli avvocati, a promuovere una petizione alla Corte Federale.
Il caso Spanò
È il titolo del libro di Giuseppe Messina che racconta nei dettagli la storia di Antonino Spanò. Nel 1945 a San Piero Patti, un paesino in Sicilia, viene assassinato l’anziano avvocato Antonio Baratta che abitava a circa un’ora e trenta dal piccolo borgo. L’omicida è un uomo dal volto coperto, assieme a due complici. Il contadino Sebastiano Martelli, che lavorava per Baratta, verrà svegliato quella notte da questi tre uomini, che lo costringeranno a portarli dall’avvocato. Dopo una serie di testimonianze vaghe e senza prove certe,viene arrestato il contadino, ex carabiniere, Antonino Spanò, che aveva in precedenza fatto il guardiano per la tenuta di Baratta. Condannato all’ergastolo passerà 23 anni e 8 mesi in carcere da innocente, fino a ottenere la libertà nel 1969.

Gerry Conlon
I 4 di Guildford, sono chiamati così i 4 ragazzi Gerry Conlon, Paul Hill, Carol Richardson e PaddyArmstrong che vennero arrestati da innocenti nel 1974 per l’attentato dell’Ira in un pub di Guildford, dove morirono 5 persone. I ragazzi vennero rilasciati dopo 15 anni, il padre di Gerry, accusato di essere complice, morì in carcere. Nel nome del padre (1993) è il famoso film con Daniel Day-Lewis ispirato al libro che Conlon scrisse dopo la scarcerazione. Tony Blair scrisse una lettera di pubbliche scuse.
Sacco e Vanzetti
Fu uno dei primi casi in cui l’errore giudiziario portò alla sedia elettrica. Sacco e Vanzetti erano due anarchici italiani, processati e giustiziati sulla sedia elettrica negli Stati Uniti con l’accusa di aver ucciso due persone. Nonostante un detenuto confessò di aver commesso gli omicidi, i due anarchici morirono. Dopo cinquanta anni anni dalla loro morte venne riconosciuto pubblicamente l’errore.
Enzo Tortora
Il conduttore televisivo, animatore de La Domenica Sportiva e ideatore di Portobello, la fortunatissima trasmissione che dal 1977 al 1983 inchiodò gli italiani allo schermo, è lo sfortunato protagonista del piuù tragico caso di malagiustizia italiana, il “caso Tortora”, appunto.Il 17 giugno 1983 viene arrestato dai Carabinieri di Roma su ordine della Procura di Napoli che lo accusa di associazione per delinquere di stampo camorristico.L’arresto, deciso dal sostituto procuratore Diego Marmo, è motivato da numerose testimonianze che puntano il dito contro di lui.Ci sono le dichiarazioni di tre pregiudicati come Giovanni Pandico, Giovanni Melluso e Pasquale Barra, di otto imputati nel processo alla cosiddetta “Nuova Camorra Organizzata” e di una coppia di loschi figuri, i quali testimoniano di averlo visto spacciare droga negli studi di Antenna 3.Per giorni in Italia non si parla d’altro e il paese si divide subito tra “innocentisti” e “colpevolisti”. Tortora resta in carcere per sette mesi e poi passa agli arresti domiciliari per motivi di salute.Nel giugno 1984 viene eletto deputato al Parlamento europeo nelle file del Partito Radicale di Pannella che lo sostiene nella sua lotta giudiziaria e politica.Il 17 settembre 1985, il conduttore viene condannato a dieci anni di carcere: le accuse contro di lui trovano un sostegno nelle rivelazioni di alcuni pentiti mafiosi.A nulla vale la sua accorata difesa in aula: «Sono innocente». Tortora si dimette da europarlamentare, rinuncia all’immunità e si lascia arrestare.Il 15 settembre 1986, meno di un anno dopo, e è assolto dalla Corte d’appello di Napoli: le accuse contro di lui vengono smontate, tassello dopo tassello, e i camorristi pentiti vengono processati per calunnia. Il conduttore viene assolto infine dalla Corte di Cassazione il 13 giugno 1987, anno in cui ritorna in tv e riprende la conduzione di Portobello. Ma ormai è malato. Morirà il 18 maggio 1988 nella sua casa di Milano.
Indagini superficiali e approssimative, scambi di persona, a volte basta anche solo una targa, fatalmente simile a quella dell’auto incriminata. E si finisce in carcere, per poi essere prosciolti, magari dopo anni di calvari giudiziari, perché riconosciuti innocenti. Storie di ordinaria ingiustizia, di cui nessuno parla, ma che in Italia coinvolgono migliaia di persone ogni anno e che costano allo Stato quanto una manovra.
Sono i casi di ingiusta detenzione e di errori giudiziari che – calcola un rapporto Eurispes – hanno colpito come un’epidemia almeno 4 milioni di italiani negli ultimi 50 anni.
La casistica è varia, spesso sconcertante per l’assurdità delle situazioni che sfiorano il paradosso e che spezzano le esistenze di intere famiglie senza trovare alla fine adeguata riparazione. Ma non c’è soltanto la storia di Enzo Tortora, perché personaggio notoal grande pubblico, protagonista di una vicenda giudiziaria emblematica entrata nella memoria collettiva del Paese.
Ci sono anche altre storie, forse più clamorose, che meritano di essere raccontate.
Come quella di Domenico Morrone, un semplice pescatore tarantino, arrestato nel 1991 con l’accusa di aver ucciso due minorenni. Oltre 15 anni di carcere, sette gradi di giudizio e un processo di revisione conclusosi nel 2008 con un’ordinanza della Corte d’Appello di Lecce che ha ratificato un risarcimento di 4 milioni e mezzo di danni: in pratica 300 mila euro per ogni anno di ingiusta detenzione. Ma la revisione del processo è un mezzo di impugnazione straordinario che viene esperito raramente, con altrettanto rari risarcimenti milionari.
Casi entrati in letteratura, come quello di Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto di avere un’auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all’errore giudiziario c’era il problema di ingiusta detenzione: 5 anni e mezzo nel suo caso, per cui è stato riconosciuto il risarcimento record di 4,6 milioni di euro che ne hanno fatto un vero e proprio precedente perché per la prima volta, accanto al danno morale, biologico ed economico, è stato riconosciuto anche quello esistenziale.
Quanto alle ingiuste detenzioni in realtà la legge non prevede alcun risarcimento, ma solo un indennizzo il cui tetto massimo è fissato a 516.456,90 euro.Inoltre, mentre la revisione del processo può essere richiesta in ogni tempo, addirittura anche dagli eredi, per quanto riguarda l’indennizzo a seguito di ingiusta detenzione il codice di procedura penale concede solo due anni di tempo dalla scarcerazione, pena l’inammissibilità della domanda. Un lasso di tempo troppo stretto perché chi abbia subìto uno choc così forte possa riaversi dal trauma e intraprendere questo tipo di percorso.
E’ evidente, allora, che la custodia cautelare preventiva in Italia è una misura largamente abusata per indurre l’indagato a collaborare, esercitando su una persona in grosse difficoltà, una pressione psicologica paragonabile alla tortura.
Anche perché, forse è solo un caso, il limite di due anni coincide con il periodo entro il quale si prescrive l’errore del magistrato.
Senza contare che la maggior parte delle richieste viene rigettata con motivazioni a dir poco kafkiane che decretano la colpa grave, quando non il dolo, della vittima rea di aver quindi contribuito volontariamente alla sua ingiusta detenzione. Un corto circuito giudiziario che vede due sentenze cozzare l’una con l’altra: da una parte l’assoluzione da tutti i capi di imputazione perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, dall’altra il diniego all’indennizzo del danno subito dal soggetto, che il carcere “se lo sarebbe in qualche modo cercato”.
Si tratta evidentemente di un problema di ordine squisitamente pratico per evitare il collasso economico di un sistema già pesantemente gravato dai costi onerosi dei processi lumaca e da nove milioni e mezzo di cause arretrate, tra civile e penale, che la giustizia italiana proprio non riesce a smaltire. Una realtà che pesa enormemente nelle tasche dell’amministrazione pubblica: 42 milioni di euro pagati nel 2016, e 700 milioni di euro spesi in risarcimenti dal 1992 ad oggi.
All’orizzonte, in materia, si profila un altro caso da manuale anche perché legato a una ferita ancora tragicamente aperta tra le pieghe della storia, a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica. Nell’ottobre 2011 la Corte d’Appello di Catania ha disposto la sospensione della pena e l’immediata scarcerazione di otto uomini condannati all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, in cui il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Borsellino e 5 uomini della sua scorta. Sentenza emessa dalla stessa Corte che ha invece ritenuto inammissibile la richiesta di revisione dei processi Borsellino e Borsellino bis.
Uomini finiti dietro le sbarre con la più infamante delle accuse, strage con l’aggravante di terrorismo, liberati dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l’altro in regime di 41 bis.
Un abbaglio eclatante che, secondo alcune stime, potrebbe costare allo Stato circa 10 milioni di euro.

Ma gli svarioni non hanno solo conseguenze a breve termine sulla vita delle persone che restano incastrate tra le maglie della giustizia italiana. E spesso i corresponsabili di tanti dolori sono gli organi di stampa, giornali e tv pronti a sbattere il mostro in prima pagina, salvo poi dimenticare di dare, con altrettanta enfasi, la notizia di un proscioglimento.
Avv. Anna Moricca