2 Giugno: la fine di una dinastia durata mille anni

umbertoIIsavoia1946-1Roma  – Basto’ un giorno per veder crollare mille anni di storia: lo shock dovette essere incredibile per una dinastia le cui radici affondavano nei secoli bui e le cui glorie a confronto erano, il 2 giugno del 1946, assai fresche. I Savoia, da conti vassalli di Borgogna come pare fossero nel 980, erano assurti con il tempo a cingere quella Corona Ferrea per la quale si erano combattute dinastie ben piu’ antiche ed altolocate della loro. Tra i piu’ recenti precedenti si ricordino gli Asburgo imperatori d’Austria e lo stesso Bonaparte.
Tutto questo venne meno a causa di un pugno di sudditi irriconoscenti. Un pugno? In realta’ i dati ufficiali parlano di due milioni esatti di persone, che non sono esattamente un grumo di voti. E se magari i partiti della sinistra italiana speravano in un divario ancora piu’ grande, comunque il referendum istituzionale si concluse con un esito netto: 54,3 voti validi su cento avevano detto si’ alla svolta, gli altri 45,7 si erano espressi perche’ Umberto II, incoronato re meno di un mese prima, restasse sul trono.
Un risultato che venne subito messo in discussione dai perdenti. I monarchici lo contestarono subito, parlando di brogli e lamentando che parte della popolazione era stata esclusa dalle urne. I sostenitori della corona non accettavano la sconfitta, anche perche’ avevano sperato molto sulla staffetta in zona Cesarini tra Vittorio Emanuele III, il re screditato degli anni fascisti, e Umberto II, sovrano piu’ presentabile, che con Mussolini non era mai andato d’accordo.
Tutti i ricorsi dei monarchici per annullare il voto furono respinti dalla Cassazione, anche quelli basati su un argomento sulla carta molto potente: non tutti gli italiani avevano potuto votare. Infatti nel 1946 i confini postbellici non erano stati ancora definiti e Roma non aveva riacquistato la sovranita’ su tre province (Bolzano, Trieste e Gorizia), amministrate dalle truppe alleate. Cosi’ altoatesini e giuliani non poterono votare. Poi c’era la questione di migliaia di prigionieri che, 13 mesi dopo la fine delle ostilita’, non erano ancora tornati a casa.
Secondo stime monarchiche, tutto cio’ si era tradotto nella cancellazione di circa tre milioni di voti potenziali: cioe’ ben di piu’ dello scarto con cui la repubblica aveva vinto (1.998.639). Dunque, almeno in teoria, il voto degli esclusi avrebbe potuto cambiare il risultato. Ma di ipotesi di scuola, in fondo, si trattava: mica si poteva aspettare il ritorno di Trieste tra le braccia della Madre Italia (sarebbe avvenuto il 4 dicembre 1954) per decidere una cosa cosi’ impellente. Quanto poi ai reduci dei lager (in parte internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e poi rimasti in prigionia per non aver voluto aderire alla Rsi), chissa’ se avrebbero votato al 100 percento per i Savoia, corresponsabili della loro malasorte.
Che dire poi degli altoatesini, in maggioranza di lingua tedesca e quindi colpiti da una corona loro estranea, che per di piu’ aveva avallato la politica fascista di italianizzazione “forzata” della regione? Un dubbio piu’ che ragionevole puo’ esistere invece per la Venezia Giulia, dove l’occupazione jugoslava del 1945 aveva lasciato pessimi ricordi e diffusi sentimenti anti-comunisti, che potevano facilmente diventare anti-repubblicani. Il Pci era infatti (con Psi e Pri) un deciso sostenitore della svolta istituzionale.
Certo che, se la Venezia Giulia avesse davvero scelto la monarchia, sarebbe stata una mosca bianca. Infatti tutte le regioni del Nord (ivi comprese Toscana, Umbria e Marche) votarono compatte per la repubblica. Persino il Piemonte, terra sabauda per eccellenza, umilio’ la casa regnante, assegnando alla monarchia solo il 43,1% dei suffragi. Speculare fu il risultato nel Sud, dove tutte le regioni si espressero per la riconferma dei Savoia. Era una spaccatura netta del Paese, disegnata piu’ su basi geografiche che di schieramento politico.
Abilissima a sfruttare la situazione fu la Dc di Alcide De Gasperi che, intuendo in anticipo il fenomeno, lascio’ liberta’ di voto ai suoi elettori, riuscendo cosi’ a prendere due piccioni con una fava: unita’ del partito e dei cattolici, piu’ successo alle elezioni per la Costituente.
Ben diversa era la posizione delle sinistre, che sulla cacciata dei Savoia avevano scommesso tutto: “O la repubblica o il caos” amava dire in campagna elettorale Pietro Nenni, segretario del Psi. E lo slogan era diventato un boomerang, perche’ molti l’avevano letto come una minaccia di tumulti in caso di sconfitta. Tanto che poi lo stesso Nenni, dalle colonne dell’Avanti, organo del partito, si era sentito in dovere di rassicurare: “Nulla accadra’, nulla deve accadere!”. In effetti, nulla accadde. O almeno, nulla di visibile.
Dietro le quinte, pero’, qualcosa potrebbe essere successo davvero. Come detto, i monarchici gridarono subito al broglio. Il dubbio nasceva dal fatto che i primi seggi-campione davano per vincente la monarchia (si dice che un’informativa in tal senso fosse stata trasmessa dal Comando carabinieri addirittura al papa Pio XII); ma poi le sorti si ribaltarono, come se qualcuno avesse aggiunto migliaia di schede “tardive”, tutte repubblicane. L’accusa non fu mai provata, ma negli storici qualche dubbio residuo e’ rimasto. Resta semmai l’atteggiamento recalcitrante di Umberto II. Il 7 giugno rinvia la partenza dall’Italia, il 12 scrive a De Gasperi dicendo che lui intendeva riconoscere come valido solo un risultato in cui la maggioranza veniva calcolata non rispetto ai voti espressi, ma agli aventi diritto.
Probabilmente la storia dei presunti brogli restera’ un tormentone irrisolto. Ma due cose sembrano certe. La prima: lo stesso Togliatti si lascio’ scappare una frase sospetta (“I parti difficili vanno aiutati”). La seconda: De Gasperi, allora capo del governo, ancor prima che la Cassazione si pronunciasse, dichiaro’ perdente la monarchia e diede il benservito al re, come se contasse su un risultato sicuro. Ma probabilmente si trattava del fiuto del politico, che sa prima degli altri dove si va a parare. Anche prima di un re ultimo discendente di una dinastia durata mille anni.