Belice: don Riboldi la voce della Valle, “Baracche e tradimenti!”

Partanna (Trapani) – “Puo’ esserci giustizia per la Valle del Belice? Nella mente e nella volonta’ di tanti di noi, alcune regioni della nostra nazione sono del tutto estranee alla nostra conoscenza o alla nostra attenzione. E’ giusto dire la verita’ a tutti noi: la Sicilia e’ una grave ingiustizia dell’Italia, perpetrata nel tempo e accettata oggi come necessita’. E’ un dito puntato contro la coscienza dell’uomo che non puo’ tollerare che esistano simili discriminazioni”. Cosi’ scriveva don Antonio Riboldi, sacerdote rosminiano d’orgine lombarda, trapiantato nel cuore del Belice, parroco a Santa Ninfa, voce dei terremotati, nel suo libro “Lettera dal Belice al Belice”, scritto nel 1977, nove anni dopo il terribile terremoto. Il vescovo di Acerra e’ morto il 10 dicembre scorso.

 

In sede politica, denunciava don Riboldi, “si e’ liquidato il Belice con una legge pomposa e lacunosa allo stesso tempo che decretava una sicura ricostruzione di goni centro distrutto. Poi, a distanza di nove anni, si scopri’ che dietro questo ‘sipario’ c’era il nulla. E allora fu lo scandalo. Capelli strappati, parole infuocate, penne indignate, grida di giustizia, lacrime di commiserazione. Una commedia all’italiana recitata sulle disgrazie cui non si sa o non si vuole porre riparo”.
E di nuovo, dopo questo momento di fremito, “il Belice torna nel suo silenzio di sofferenza e di morte. Li ho vissuti tutti questi lunghi anni di silenzio con la gente del Belice. E non e’ vero che non si e’ fatto nulla. Ossia si e’ fatto tutto quello che si e’ soliti fare con i ‘poveri’: un tradimento dei loro sacrosanti diritti di uomini. Lentamente, in questi anni, si sono fatte, disfatte riparate le baracche. Baracche: non vi era e non vi e’ altro nome che meglio descriva una non-vita degli uomini, rivestiti di materiale antiuomo. Quattro pannelli che rinchiudono 24 o 45 metri quadri di spazio per accogliere la vita di famiglia di quattro o piu’ persone. Una finestra, una porta, un servizio ridottissimo, un lavandino e niente piu'”.
Baraccopoli: “Un orribile nome che sta a indicare file di baracche di ogni stile, le une aggrappate alle altre, come prigionieri: sormontate da lunghi pali della luce che gettano sinistramente il loro chiarore, quando c’e’, di notte, su tutto, rifinendo l’aspetto di lager che gia’ hanno. E sulle baracche numeri, solo numeri, senza un nome che indiche la via, che dia anima… Numeri, come diventano questi uomini condannati a non piu’ sperare. In questo contesto si e’ consumato in silenzio un vero e proprio genocidio, quello della fede degli uomini, della loro speranza, della loro stessa dignita’”.